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, 10 Giugno 2020

La coscienza politica del Calcio Italiano


Nelle ultime tumultuose settimane, abbiamo assistito ad una vera e propria rivolta di massa negli USA a causa dell’insensato omicidio di George Floyd. L’onda lunga della rivolta ha, ovviamente, interessato lo sport a stelle e strisce ma anche quello europeo. E, nello specifico, il calcio.


“Il fallimento della sinistra si misura talvolta dalla natura dell'avversario: in Polonia la Madonna nera di Czȩstochowa si è dimostrata più potente dei comunisti”

(Pamphlet dal pianeta delle scimmie, Manuel Vazquez Montalban)

In Germania, primo campionato professionistico ripartito post pandemia, alcuni giocatori (Sancho, Thuram etc) hanno chiaramente espresso la loro solidarietà alla causa del Black Lives Matter e, nonostante un’indagine da parte del comitato etico della DFB, quest’ultima s’è immediatamente schierata a fianco delle rivendicazioni espresse dai giocatori per bocca del suo stesso presidente. La domanda, però, che sorge spontanea, citando un noto programma televisivo notturno, è: nel calcio italiano c’è qualcuno, o qualcuna, che voglia farsi veicolo di rivendicazioni politiche e sociali?

Per intenderci meglio: potremmo mai vedere un “take a knee” in stile Kaperinick oppure il salvataggio di un migrante nel Mediterraneo in stile Gasol?

Vi è da dire che l’agenda politica italiana non lesina di occasioni ghiotte per chi abbia una coscienza sociale di esporsi e prendere parte attiva, eppure tutto tace. Perché?

Adeguata risposta a questo interrogativo andrà ricercata scandagliando il passato politico del calcio italiano in, quasi, tutte le sue componenti così da capire come si è arrivati all’attuale immobilismo o apparente tale.

Il Gioco, come noto, è un prodotto d’importazione anglosassone e, come tale, era riservato ai gentlemen: un passatempo elitario (qui un'immagine del Corinthinas F.C. la squadra dei gentlemen per eccellenza). Vista, però, l’ampia diffusione crescente nella working class, il Gioco diventava sempre più un affare politico e sociale tanto che sulle pagine dell’ ”Avanti!” Antonio Gramsci esortava gli operai a frequentare lo stadio al fine di appropriarsi degli impianti e del gioco stesso poiché emblema di democrazia.

Il Gioco era da lui ritenuto, a ben donde, “espressione della modernità” poiché “anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l’individualismo economico del regime ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell’opposizione”.

Appare chiaro che, anche in Italia, il tema politico avesse fatto definitivamente irruzione nel mondo del Calcio. Negli anni successivi, quelli del regime fascista, molti calciatori si distinsero come dissidenti.

Si pensi a Bruno Neri e Michele Moretti, entrambi si rifiutarono, in due occasioni distinte, di fare il saluto romano; alla Lucchese, nella quale militò successivamente anche lo stesso Neri, che scalò la classifica di Serie A guidata dall’allenatore ungherese, di origine ebraica, Erno Erbstein e degli anarchici Libero Marchini e Gino Callegari, del comunista Bruno Scher e del libertario Aldo Olivieri (terza foto in basso), provocando non pochi grattacapi a Mussolini che vedeva la loro fama crescente come ostacolo all’utilizzo del Gioco come strumento di catalizzazione del consenso popolare.

Dopo il secondo conflitto mondiale, all’atto del referendum che vedeva la popolazione italiana scegliere tra democrazia e monarchia, diversi giocatori del Grande Torino appoggiarono pubblicamente il PCI dichiarando la loro intenzione di voto per la democrazia.

Scorrendo la linea temporale più avanti, tra gli anni 60 e 70, possiamo ricordare il trequartista Paolo Sollier. La sua storia, sulla quale mi soffermerò, risulta paradigmatica sul rapporto calcio e politica in Italia.

Definito dalla stampa “il calciatore ultrarosso”, il compagno, il comunista e dai suoi compagni di squadra “Mao”, ebbe spesso scontri ideologici con Avanguardia operaia e degli altri movimenti dell’epoca. Questi, difatti, declassavano il Gioco a terreno privilegiato del disimpegno e del qualunquismo e, pertanto, non vedevano di buon occhio il suo essere militante e giocatore.

In una recente intervista, Sollier racconta: “ho incontrato pochi calciatori con i quali si parlava di politica. A Perugia c’era Raffaeli, che veniva da una famiglia iscritta al partito comunista. Poi c’erano quelli che simpatizzavano per i gruppi dell’extra-sinistra come Blangero, Pagliari, Codogno, Ratti, Galasso, Montesi”.

Proseguendo nella lettura, Sollier ci disvela quelli che sono due elementi essenziali nel rapporto calcio e politica e che potranno dare risposta al quesito posto all’inizio dell’analisi.

Il primo riguarda il Calcio al suo interno, difatti: “Nel 1974 o nel 1975, non ricordo bene, organizzammo un paio di riunioni per provare a creare qualcosa di nuovo, ma alla fine ci guardammo in faccia e dicemmo: ma che stiamo facendo? Dei grandi calciatori di quell’epoca, solo Gianni Rivera mostrò un’apertura e un interesse a quanto stava accadendo: la sua attività post calcio è la conferma che avesse una buona testa. Degli altri, nessuna notizia”.

Il secondo, invece, ci parla dell’atteggiamento della politica dinanzi al Gioco: “la sinistra ha le sue colpe: a quei tempi considerava lo sport una cosa da qualunquisti, un momento di disimpegno. Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari”.

Arrivando alle ultime decadi, il tema centrale è divenuto quello della lotta la razzismo.

Troviamo molti gesti eclatanti, ma sempre limitati nel tempo e nello spazio, come quelli del difensore del Messina Zoro, che durante un Messina-Inter prese il pallone e tentò di abbandonare il campo; come i palloni scagliati con forza prima da Boateng durante un’amichevole del Milan contro il Pro Patria verso il settore riservato ai tifosi propatriensi e poi da Balotelli, l’anno scorso a Verona durante Hellas-Brescia, verso il settore dei tifosi di casa.

Episodi del tipo appena citato sopra non accadono, però, solo sui prati verdi. Difatti, la FIGC, e qua ricordiamo solo due calmorosi episodi, ha avuto il suo ruolo. Si ricordi, infatti la, usando un eufemismo, discutibile campagna di sensibilizzazione della FIGC con l'utilizzo di scimmie stilizzate nonchè per le gesta del giocatore di colore narrate da un fuori contesto Tavecchio, all'epoca presidente della Federazione: "Optì Opbà è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca nella Lazio". Volendo usare un'espressione popolare: "Il pesce puzza dalla testa".

Ancor più di recente, un calciatore che, seppur moderatamente, s’è distinto è stato Claudio Marchisio, ex centrocampista di Juventus e Zenith, che ha spesso avuto modo di ribadire la sua contrarietà al dominante pensiero che lega a stretto filo fenomeni migratori e criminalità o come il suo ex compagno di squadra Chiellini che, attraverso un posto su Instagram, ha palesato la sua indignazione verso l’assassinio di George Floyd.

E’ del tutto evidente che se nemmeno negli anni più prolifici a livello politico e di coinvolgimento delle masse, parliamo del ventennio 60-70, il calcio italiano si è lasciato contaminare dalle istanze sociali e dalle rivendicazioni, lasciandosi considerare un semplice passatempo, non si vede perché dovrebbe farlo nella contemporaneità. Tralascio il periodo fascista dove quei gesti, ovviamente, erano sì individuali ma c'era una gestione della libertà personale limitatissima.

La sua quasi totale mutazione in un settore dell’industria dello spettacolo comporta che i giornalisti parlano solo di questioni meramente tecniche o fanno gossip ed i calciatori si atteggino a divi affetti da “campionismo”, risultando avidi e disimpegnati.

Ciò è spesso amplificato dalla stampa sportiva che, ad ogni minimo accenno di interesse mostrato da un calciatore ad una tematica sociale, si affanna nel sopirla sotto una coltre di frasi fatte come “la politica rimanga fuori dal calcio” o “pensino a fare il loro mestiere”, relegando, di fatto, la figura del futbolista al “mono de Circo” di Galeano.

Citando nuovamente Sollier: “è raro anche trovare la tendenza alla socializzazione e questo è in contraddizione col gioco di squadra stesso: mentre in campo funziona il tutti per uno e uno per tutti, fuori campo ognuno rimette i suoi vestiti ideologici ed ha con gli altri rapporti anche simpatici, ma slegati e superficiali”.

La risposta al perché il mondo calcistico italiano taccia dinanzi a quello che sta accadendo risiede, dunque, nel suo profondo individualismo.

La mancanza di coscienza di sé nella contemporaneità del moderno calciatore professionista quale parte integrante della società, l’assenza, apparente, di interesse ai problemi che l’affliggono, ha come riflesso il distaccamento, che si fa sempre più definitivo, del Gioco dalla sua natura popolare conducendolo, come si diceva prima, nel più buio e mero intrattenimento.


  • Impuro, bordellatore insaziabile, beffeggiatore, crapulone, lesto de lengua e di spada, facile al gozzoviglio. Fuggo la verità e inseguo il vizio. Ma anche difensore centrale.

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