Draft NBA: le galline dalle uova d'oro
“Beati gli ultimi, perché non avranno l’ansia di avere sempre qualcuno dietro” recita un detto popolare di firma anonima. Chi sa cosa ne pensano di questa massima i cestisti che vengono selezionati al secondo giro del Draft Nba, o addirittura tra le ultime 10 posizioni delle picks generali di quell’annata.
Di certo, nella recente storia della spettacolare lega cestistica a stelle e strisce, di casi di “ultimi” teletrasportati a “primi”, sorprendendo tutti (staff tecnici, scout, addetti ai lavori ecc ecc) ce ne sono a dozzine.
Il Draft Nba: spada di Damocle e pipite inaspettate
Meglio avere la prima scelta assoluta al Draft Nba, incluse tutte le pressioni del sapere che non c’è nessun margine d’errore nel selezionare il papabile uomo su cui ricostruire una franchigia, o avere in dote una scelta fuori dalla Lottery e scovare il talento inaspettato?
La verità assoluta non ce l’ha nessuno in mano, probabilmente – anzi di sicuro – è preferibile possedere una pick più alta possibile, in modo da chiamare uno dei migliori talenti su piazza. Tuttavia, tra scouting poco affidabili, giocatori che non si adattano al roster che infoltiranno, rapporti poco idilliaci tra coach e gm, general manager poco lungimiranti e legati alla visione “o la va o la spacca”, abbiamo assistito a "bust" fragorosi (vedi "Il Draft NBA non è una scienza esatta"). Tanto che in alcune situazioni disporre di una pick Top 3 rischia di diventare un boomerang nocivo. Dall’altro lato della medaglia, esistono anche bizzeffe di casi in cui le franchigie edificano un impero nella Nba grazie a scelte pescate nel secondo round della tornata, oppure scambi di assets per picks di buon livello, o addirittura raschiando dal barile gli undrafted, comprimari solamente da svezzare che assumeranno compiti preziosissimi in roster vincenti. Nemmeno la sfera di cristallo sa prevedere con certezza quali tra i giocatori che escono dal College, o anche dall’Europa e in passato anche dal Liceo, avranno un impatto migliore con la lega professionistica. Basti pensare che nella storia del Draft è capitato che molti giocatori scelti nei giri secondari del siano diventati degli All Star o degli Hall Of Famer.
È il momento di dare un’occhiata alle 10 “steals” – etichetta affibbiata alla superstar insospettabile e selezionata nel tabellone basso – dei Draft Nba degli ultimi 20 anni. Il criterio adottato per avallare l’entrata in classifica dei 10 “colpacci” del Draft Nba sta nell’aver indicato coloro scelti al di fuori della Top15 dell’epoca 1999-2018; anche se vi è la classica eccezione che conferma la regola. Altrimenti chiederebbero il ricorso Kawhi Leonard (scelto alla numero dagli Spurs nel 2011), Klay Thompson (scelto alla 11 dagli Warriors nel 2011) e molti altri ancora.
P.s. prima di partire con la best 10 vi lasciamo alcune curiosità: Kobe Bryant è stato scelto alla numero 13 nel 1996 dai Lakers, Steve Nash è andato alla 15esima ai Suns nella stessa Draft Class di Bryant, mentre John Stockton è stato 16esima scelta dei Jazz nel 1984. Inoltre Nuggets, Pacers, Grizzlies, Heat e Jazz non hanno mai avuto il privilegio di possedere una prima scelta assoluta al Draft Nba.
10- Pascal Siakam, 27esima scelta dei Toronto Raptors nel 2016.
Di pellicole strappalacrime, degne di una sceneggiatura scritturata da mandare alle case cinematografiche di Hollywood, la Nba ne ha raccontate fin troppe, ma quella di Siakam non può non smuovere il vostro animo. Una narrazione che sa toccare sia il climax negativo che positivo.
Circa una decina d’anni fa, un adolescente camerunese di nome Paskal viveva nel villaggio di Bafia e studiava per diventare prete per rispettare la volontà di suo papà Tchamo, il quale riesce ad allevare ben sette figli e nei ritagli di tempo addirittura fa il sindaco del villaggio. Siakam in principio gioca a pallone, come molti ragazzi africani. Finché un giorno i tre fratelli maggiori decidono di instradare Pascal verso il basket. La scintilla sconvolgente per Siakam arriva quasi per caso, quando incontra Serge Ibaka e Luc Mbah a Moute durante un camp dell’evento organizzato dall’Nba “Basketball without Borders”. Siamo nell’estate del 2011, Pascal ha da poco spento 17 candeline e frequenta il seminario.
Comincia a ricevere un’educazione cestistica e cresce ancora di più di altezza. Impressiona tutti e si guadagna così la possibilità di sbarcare nel basket americano. L’esperienza universitaria che lo lancia definitivamente si geolocalizza a New Mexico State. Il camerunese, ala piccola di 206 cm dalle movenze dinoccolate ma sguscianti e tremendamente efficaci su ambo i lati del campo, esplode definitivamente, totalizzando 20.3 punti e 11.6 rimbalzi ad allacciata nella seconda stagione a N.M. State Aggies. Però, come le diegesi dei film hoolywoodiani insegnano, quando tutto sta andando per il verso giusto deve arrivare un colpo di scena. Nell’ottobre del 2014 il papà di Siakam muore in un incidente stradale, per il ragazzo che doveva diventare sacerdote è una ferita profonda, quasi una sorta di gancio da k.o. Ma la madre lo convince a rimanere in America per continuare il suo sogno in onore del padre.
Flash forward fino ad oggi. Attraversata la gavetta in D-League ai Raptors-905, la 27esima scelta di Toronto al Draft 2016 ha coronato il suo sogno. La diapositiva principale: l’anello infilato al dito la scorsa estate con i canadesi, ornata da una gara 1 delle Finals contro Golden State indimenticabile da 32 punti con un 14/17 irreale dal campo. Immaginiamo che il padre di Pascal sia pienamente orgoglioso del cammino intrapreso dal figlio. Inoltre, i passi da gigante del camerunese hanno un riscontro concreto, dato che Siakam si è impossessato del Most Improved Player 2019. I Raptors hanno premiato la crescita impressionante di Pascal, facendogli firmare un’estensione contrattuale da 130 milioni di dollari per 4 anni. Il camerunese oggi è l’uomo franchigia di Toronto, una franchigia capace di individuare e coltivare il talento e di saper innovare come poche altre, figlia di un melting-pot tecnico-culturale incarnato perfettamente dal gm anglo-nigeriano Ujiri. E prima della pausa per il dilagare del coronavirus, Siakam è salito letteralmente al proscenio viaggiando a 28 punti, 9.2 rimbalzi e 3.7 assist di media, con annessa la conquista del mattoncino del quintetto titolare all’All Star Game 2020. A 26 anni, il lieto fine per la classica favola a tinte americane, in questo caso bianco-rosse canadesi.
Pascal Siakam tiene in mano il premio di MIP della stagione 2018-2019.
9- Lou Williams, 45esima scelta dei Philadelphia 76ers nel 2005.
“Come cavolo lo portiamo ora? Aveva un braccio appoggiato attorno alla spalla di Iverson. È riuscito a salire sull’aereo, ma era completamente ubriaco”. Sono le parole di Matt Barnes riguardo un simpatico aneddoto che fa riferimento a Lou Williams, rookie dei Sixers nella stagione 2005-2006 e suo compagno all’epoca. Durante un viaggio in pullman con la squadra verso l’aeroporto, l’allora 19enne Williams fu sfidato dai due veterani Allen Iverson e Chris Webber a bere consecutivamente sei lattine di birra. Williams accettò e vinse la scommessa, aggiudicandosi i 15.000 dollari messi in palio.
Una curiosità che si aderisce come un guanto alla parabola di Sweet Lou in Nba: scelto dai 76ers a metà giro tra le seconde scelte (numero 45) del Draft 2005, sin da subito Williams si è dovuto guadagnare il pieno rispetto di tutti, sebbene fosse uno dei liceali più in vista del paese: McDonald’s All American, uno stordente talento offensivo cercato da tutte le università. Williams però decise di saltare il college e dichiararsi per il Draft. Era la Nba dei primi anni 2000, quella in cui la fisicità la faceva da padrone. Il nativo di Memphis, troppo basso e magro per giocare da guardia tiratrice e senza un’eccellente visione di gioco per fare il playmaker, scivola alla numero 45 al Draft. Lo selezionano i Sixers, la squadra del suo idolo Allen Iverson. L’incipit nella lega più spettacolare al mondo è simile a un incubo per Williams: il minutaggio scarso, la difficile ricostruzione del post AI per i 76ers. Ma poi qualcosa cambia. La svolta definitiva avviene nella stagione 2009/10, quando i Sixers riabbracciano Iverson, il figliol prodigo tornato nella Città dell’Amore Fraterno. Per far spazio a The Answer, coach Eddie Jordan decide di far retrocedere Williams in panchina e tramutarlo in un sesto uomo, la veste ideale per Sweet Lou.
Da lì il lunario di Williams cambia definitivamente e il suo impatto sulle partite è ritmato dall’attesa iniziale sul “pino”. Sixers, Hawks – dove nel 2013 si rompe il legamento crociato anteriore del ginocchio destro – Raptors, Lakers, Rockets e ora Clippers, Lou ha calcato e sta calcando da quindici anni le arene del basket a stelle e strisce con le maglie delle franchigie poc’anzi riportate, divenendo il miglior marcatore ogni epoca della Nba tra coloro che cominciano le gare della panchina. Il sorpasso a Dell Curry (il padre di Steph) è giunto il 12 marzo 2019 a Boston, con i 34 gettoni grazie ai quali ha raggiunto il record precedente di 11.153 punti. Non l’unico traguardo tagliato da Williams, premiato tre volte come Sixth Man of the Year (2015, 2018, 2019). Il leggiadro fade away cadendo di lato – il suo marchio di fabbrica – le mani dolci come il miele, i giochi di prestigio estratti dal cilindro, Williams è una macchina da canestri ed è anche il solo ad aver segnato ben 200 volte almeno 20 punti uscendo dalla panchina. Ora i Clippers di Leonard, George e del suo compare della fruttifera connection Harrell, se lo coccolano; niente male disporre di un sesto uomo del genere. Uno che sì parte dalla panca, però si sa: “l’importante non è iniziare le partite, ma finirle”. Lou Williams – ribattezzato inoltre The Underground GOAT – gli ultimi minuti del match tende sempre a giocarli, risultando spesso mortifero per gli avversari.
Alcune deliziose perle del Sesto Uomo per eccellenza Lou Williams. Ah, Sweet Lou è passato alla ribalta anche per cronache rosa nel 2014, appena si scoprì che aveva due fidanzate "consenzienti"
8- Jimmy Butler, 30esima scelta dei Chicago Bulls nel 2011.
La scorza mentale di Jimmy Butler può paragonarsi alla corteccia di una quercia, è indistruttibile. Perché il vissuto personale del ragazzo nato a Houston il 14 settembre 1989 è di quelli tosti. La sua infanzia non è facile, il padre è scappato quando lui era un bimbo in fasce e a 13 anni scoppia il terremoto: la madre lo caccia via di casa: “Non mi piaci. Devi andartene”. Una frase da far raggelare il sangue. Inizia così l’odissea di Jimmy, alla ricerca di una casa mentre la palla a spicchi diventa l’unica costante della sua gioventù. Durante il Senior year lo spartiacque della sua vita, trova una famiglia. Tutto nasce al termine di una partita di Summer League, quando un ragazzo - Jordan Leslie - lo sfida a un 3-point contest. Da quel momento Jimmy e Jordan diventano grandi amici e Butler inizia a essere invitato a casa di uno dei sette figli di Michelle Lambert, la quale non esitò ad aggiungere un “ottavo figlio”, a patto che rispettasse alcune regole. Jimmy aveva un coprifuoco, doveva andare bene a scuola, doveva aiutare in casa, doveva stare lontano dai guai ed essere un esempio per i fratelli più piccoli.
L’ultimo anno di High School per Butler è il migliore, quasi venti punti e nove rimbalzi di media. I grandi college bussano alla sua porta e lui sceglie Marquette, consigliato dalla madre per l’alto valore accademico. In campo un 2-3 in grado di difendere sui cambi come lui, dalle buone qualità offensive e dalla determinazione incalcolabile, è oro colato. Si arriva alla notte del Draft 2011. Jimmy è a casa con la madre e i sette fratelli, finché il Commissioner David Stern annuncia che Bulter è selezionato dai Chicago Bulls alla pick numero 30. La madre putativa scoppia in lacrime, lei e Jimmy si abbracciano. Nonostante il rapporto non idilliaco – per usare un eufemismo – con la mamma naturale, i tanti no ricevuti simili a sferzate indelebili in giro per il Texas, Butler aveva sconfitto i demoni personali ed era pronto per il grande salto in Nba. Ai Bulls trascorre sei annate, agli albori ricche di bastoni tra le ruote, fra minutaggio scarso e poco rendimento. Poi si impone sfruttando gli infortuni occorsi a Derrick Rose, migliorando cospicuamente il suo arsenale offensivo, difatti Butler riuscirà ad assicurare un lauto bottino di gettoni a partita (23.9 di media nella stagione 2016-2017). Nella Windy City Jimmy è ormai un all-star che nell’estate del 2017 viene scambiato dai Bulls ai TWolves poco prima della notte del Draft. In una stagione e mezza a Minnesota riesce a fare tutto: riporta la squadra ai playoff e litiga con tutti, in particolare con Wiggins e Karl-Anthony Towns. È lo “start” della retorica di un Butler bullo, di una prima donna che in spogliatoio fa danni. Giunge quindi il secondo cambio di franchigia in diciotto mesi e vola a Philadelphia. Dall’estate scorsa però, c’è un nuovo capitolo nella sua carriera, l’approdo agli Heat in cui si dice che possa assomigliare al vero maschio Alpha e riportare la franchigia della Florida ai fasti della Eastern Conference.
In tantissimi si sarebbero abbattuti di fronte agli ostacoli che si sono presentati a Butler, ma lui da questi ostacoli ha scoperto l’uomo che era. Come disse in un’intervista a ESPN, non vuole che nessuno provi pietà per lui, perché questa è la storia che gli ha permesso di arrivare dove è oggi
7- Giannis Antetokonmpo, 15esima scelta dei Milwaukee Bucks nel draft 2013.
Premessa: Giannis Antetokounmpo è l’eccezione alla regola stilata nel prologo dell’elaborato, in quanto è l’unico selezionato nella Top15 di un Draft tra le 10 steals qui elencate. Precisamente alla numero 15 del Draft 2013, non proprio nei bassifondi di una selezione generale che passerà comunque alla storia come una delle più scadenti di sempre, basti pensare che la prima pick assoluta è stata Anthony Bennett. Bisogna ad ogni modo dare atto alla lungimiranza dei Bucks, che hanno intravisto nel grezzo potenziale di Antetokounmpo la materia prima per farne il gioiello dorato dell’attuale dominio di Milwaukee.
La vicenda personale di Giannis Antetokounmpo è a dir poco romanzesca e troppo bella per non essere raccontata. Charles Adetokunbo, poi grecizzato in Antetokounmpo, nel 1992 scappa dalla Nigeria con la moglie Veronica e si rifugia in terra ellenica mettendo su una bella famiglia di cinque figli: Francis, Thanasis, Giannis, Kostas e Alexis. Giannis e i suoi fratelli non trascorrono la solita felice infanzia per le strade di Sepolia, quartiere periferico di Atene. I cinque ragazzi infatti si devono barcamenare tra un lavoro e un altro per vivere: si guadagnano qualche soldo facendo i babysitter, vanno al cantiere oppure girano per strada da vucumprà ambulanti, vendendo merce taroccata di griffe famose. Malgrado l’esistenza in clandestinità e gli isterismi xenofobi sempre più insistenti in Grecia, Thanasis e Giannis, divisi da due anni di differenza (Giannis è del 1994), sfruttano i loro mezzi atletici eccezionali e vengono accolti in una delle palestre del quartiere. Per la prima volta, nel 2007, entrano a contatto col mondo del basket. I due si allenano fino allo strenuo e continuano a crescere a vista d’occhio, Giannis arriva addirittura ai 2.11 metri e dal 2009 entra a far parte delle giovanili del Filathlitikos, squadra che vira fra seconda e terza divisione greca. Ha una predisposizione fisica simile a quella di un mutante: mani lunghe 26 centimetri e braccia che in piena estensione raggiungono i 222 cm, praticamente uno pterodattilo. Inoltre, è incredibilmente agile e coordinato e dotato di una versatilità – può ricoprire indistintamente i ruoli da 1 a 3 – poco comune per uno della sua stazza.
Nell’estate 2013 la svolta: i Milwaukee Bucks puntano su di lui e lo selezionano alla quindicesima chiamata del Draft NBA. I risultati della metamorfosi di Giannis da bruco a crisalide (anche il suo corpo sarà ancora più definito e simile a un cubo di granito di muscoli) sono sotto gli occhi di tutti. Immarcabile in campo aperto e in penetrazione, ciclopico vicino ai canestri, se il Greek Freak dovesse cementare un tiro da tre pericoloso, le chiavi della lega americana potrebbero definitivamente passare dalle mani di Lebron James alle sue. Ma già oggi si può affermare Giannis come un top 3 assoluto, un quattro volte all-star detentore del MIP 2017 e del premio MVP della scorsa stagione. Prima dello stop forzato per la pandemia da Covid-19, stava inoltre conducendo Milwaukee al miglior record stagionale della Nba (53-12) “errando” fra le arene americane a 29.6 punti, 13.7 rimbalzi e 5.8 assist ad allacciata; niente male per uno che vendeva scarpe contraffate in Grecia.
Il viaggio di Giannis dai quartieri poveri della Grecia ai palcoscenici stellari della Nba - ricordando che il fratello Thanasis è suo compagno di squadra ai Bucks e l'altro fratellino Kostas milita ai Lakers - può rappresentare una lezione di vita per chiunque sogni un futuro migliore. Antetokounmpo che ha un domani tutto da scrivere, da prossimo Re del basket a stelle e strisce, non dimenticandosi però delle sue umili origini.
Giannis Antetokounmpo ha vinto il premio di MVP della scorsa stagione. Il futuro della lega è nelle sue giganti mani.
6- Gilbert Arenas, 30esima scelta dei Golden State Warriors nel 2001.
From zero to “Agent Zero”. Su Gilbert Arenas si potrebbe tranquillamente scrivere un libro ricco di capitoli appartenenti sia alla sfera dello yin che dello yang, dato che ha vissuto episodi talmente contraddittori tra loro da essere diventato un’icona del basket colorata di varie sfumature.
Gilbert nasce a Tampa (Florida) nel 1982, a 17 anni si iscrive alla University of Arizona per giocare con i Wildcats. Indossa la maglia numero 0 come guanto di sfida verso i critici che lo ritenevano un interprete scarso del gioco. Arenas però è forte, molto forte. È un playmaker dai movimenti principeschi e da un ball handling invidiabile, e con i Wildcats approda fino alla finale Ncaa. Si sente pronto per il grande salto e si rende eleggibile per il Draft Nba 2001. Le chiamate avanzano, non si sente il nome di Gilbert, per lui è come una coltellata sempre più profonda. Alla fine, lo chiamano alla 31 i Golden State Warriors; prima di lui furono scelti elementi poi scomparsi nell’anonimato come Kirk Haston e Jeryl Sasser. All’approdo in Nba il primo triste paragrafo della carriera di Arenas: per le prime 40 partite il rookie di Golden State non vede mai il campo. Poi però si fa trovare pronto, entra in pieno nelle rotazioni principali della squadra e la stagione successiva “Agent Zero” – soprannome riservato ad Arenas – disputa un’annata entusiasmante venendo nominato MIP della stagione regolare. Estate 2003, si trasferisce ai Washington Wizards, firmando un contratto di 60 milioni di dollari per 6 stagioni. Sarà un costante “climax di rendimento” per Arenas, che nel dicembre 2006 contro i Los Angeles Lakers fa segnare il suo career high di 60 punti.
Il sessantello, in scioltezza, di Gilbert Arenas contro i Lakers il 17 dicembre del 2006.
Ora è una stella conclamata della lega. Ma dopo un incipit in Nba poco affollato di problematiche fisiche, causa grave infortunio al ginocchio nella stagione 07/08 Gilbert vede il campo solo in 8 partite. Ad ogni modo è una faccia sorridente della Lega, una superstar che ha patito le pene dell’inferno e dal nulla si è realizzato ad altissimi livelli.
Catapultiamoci al 24 dicembre 2009, giorno del fattaccio. Arenas e il compagno di squadra Javaris Crittenton in spogliatoio si puntarono due pistole contro, pare per debiti di gioco. Questo ovviamente andava contro il regolamento Nba e il 6 gennaio 2010 Agent Zero venne sospeso a tempo indeterminato, fin quando non si sarebbero concluse le indagini. Arenas scrisse anche un editoriale sul Washington Post dove chiedeva scusa per l’accaduto. Nell’ottobre del 2010 rientra in campo con la maglia numero nove, voleva cancellare il passato. Non giudicare un incontro di boxe dal solo primo round, ma per Arenas non ci sarà alcun secondo round in Nba e a seguito delle deteriori avventure con Magic e Grizzlies, nel novembre del 2012 opta per una nuova avventura in Cina agli Shanghai Sharks; appenderà le scarpe al chiodo l’estate successiva, a poco più di 31 anni.
Chissà se per giustificare la fine anticipata della carriera di Arenas vale come argomento di difesa il pesante infortunio al ginocchio, oppure è un semplice specchio delle allodole per distogliere lo sguardo dai “demeriti” mentali palesati da Agent Zero, malgrado bisogna ammettere che nel suo prime Gilbert ci ha fatto strabuzzare gli occhi con le sue qualità infinite. Certo che l’avventura di Arenas in Nba ha subito oscillazioni sin dal principio e lui, tetragono, ha sempre fatto di testa sua.
Il celebre spot pubblicitario della Adidas con protagonista Gilbert Arenas.
5- Nikola Jokic, 41esima scelta dei Denver Nuggets nel 2014.
“Alcune persone non fanno nulla ma lo fanno in un modo affascinante”. È una massima dello scrittore Curzio Malaparte e potrebbe riverberarsi su Nikola Jokic, il centro serbo dei Denver Nuggets dalla silhouette non scultorea ma che sta dominando la Nba letteralmente “in ciabatte”. Per il suo modo di giocare quasi accidioso, che tuttavia – prima delle saracinesche abbassate per l’emergenza coronavirus – stava fruttando un fatturato personale di 20.2 punti, 10.2 rimbalzi e 6.9 assist a partita. Detto in sincerità, non è l’apporto che vi aspettate da un giocatore scelto alla numero 41 al Draft.
Jokic venne selezionato dai Nuggets la notte del Draft 2014, quando Nikola militava nella squadra serba del Mega Vizura. Nell’immaginaria torre eburnea dei gm della Nba di allora, solo i Nuggets individuarono in Jokic una baby star, e oggi la pick della franchigia del Colorado è a tutti gli effetti una delle migliori steal di sempre. Nella stagione 2014-2015 il “pigro” pivot giocò ancora in Serbia ai Mega Leks, nel frattempo a Denver un altro centro slavo, il bosniaco Jusuk Nurkic, si era ritagliato uno spazio importante fra i migliori prospetti della lega a stelle e strisce. Entrambi erano dotati di quel talento raffinato dal puro carattere balcanico, i Nuggets speravano di comporre una coppia Nurkic-Jokic da palati fini, pronta a imporsi contro tutti i backcourt. Tuttavia, il duo non registrò la chimica giusta per rimanere insieme sul parquet, il front-office dei Nuggets fu costretto a scegliere su chi puntare tra i due. Nel febbraio del 2017 Denver destina le sue fiches su Jokic, per renderlo la pietra angolare del futuro della franchigia, spedendo Nurkic a Portland in cambio di Mason Plumlee.
A tre anni dalla decisione maturata, nonostante la bilancia del serbo non conosca il peso forma ideale, Joker sui parquet in giro per gli Usa mostra di essere un illusionista sotto le plance. In una lega dominata da giocatori sempre più aitanti e veloci, Jokic, che un grande atleta non lo è mai stato e che ha molto da imparare in difesa e nella protezione del ferro, ha caratteristiche uniche per uno alto 2.13 metri. Scorer infallibile nel pitturato e dal mid-range – sta ampliando pure il raggio di tiro ad oltre l’arco – con un jumper pericoloso, Nikola è un facilitatore di gioco, porta palla per tutto il campo contando sulle sue doti straordinarie di passatore. Considerando che la pg dell’attuale team di Malone è Jamal Murray (più una combo-guard che un play) Jokic ormai assume al ruolo di miglior prototipo dei nuovi centri-playmaker della Nba. E non si può discutere sulla bontà delle mani del serbo, il basket gli esce dai polpastrelli e disegna alcuni assist degni delle geometrie di Pitagora. Riflettere poi sul fatto che il sornione serbo ha impacchettato sinora 44 – esatto, 44 – triple doppie nella lega americana e rappresenta di fatto l’emblema dell’avanguardia del basket moderno, è un mago del pick’n roll che guida lui stesso e grazie alla sua classe pura sta pilotando Denver verso culmini inaspettati. L’anno scorso per i Nuggets è giunto il secondo miglior record a Ovest e l’eliminazione alle semifinali di Conference contro Portland, in questa stagione sommaria il terzo posto nella Western Conference, con Joker a maramaldeggiare contro i lunghi avversari, nonostante il suo “outfit” da infingardo e letargico.
Nikola Jokic è il migliore passatore della Nba attuale? Da questo video sembra di sì.
4- Draymond Green, 35esima scelta dei Golden State Warriors nel 2012.
Ce l’hai in squadra, e lo ami da impazzire. Te lo ritrovi contro, e molto probabilmente nutri nei suoi confronti un forte sentimento d’odio cestistico. Si sta parlando di Draymond Green, l’ala grande dei Golden State Warriors egemoni della Nba dell’ultimo lustro.
Da Saginaw, Michigan, all’etichetta di equilibratore del quintetto che dal 2015 al 2019 ha fatto la storia, lustrandosi di tre anelli Nba, di cinque apparizioni consecutive alle Finals e pure del miglior record ogni epoca ottenuto in regular season, un irripetibile 73 vinte e solamente 9 perse. Draymond ne ha fatta di strada da quando ha incontrato Tom Izzo, coach universitario di Michigan State, che stando a Green gli ha indicato la bussola da seguire per fucinarsi in un top player al piano di sopra. Ora il numero 23 è per Golden State come gli spinaci per Popeye, una sorta di ricarica indispensabile per il gioco della franchigia di San Francisco.
Nessuno ha le caratteristiche di Draymond Green in una squadra di superstar come Steph Curry, Klay Thompson e fino ad un anno fa Kevin Durant, un collante dall’acume e la maestria tattica incalcolabili. In difesa è un vero e proprio clinic su come difendere. In grado di tenere l’1 vs 1 contro qualsiasi ruolo, un maestro dell’aiuto senza commettere fallo con le braccia verticali, stoppate e rubate. C’è di tutto nel suo repertorio che nell’altra metà campo si alimenta di un gioco off the ball provvidenziale per esaltare le sfuriate dal perimetro dei Curry e Thompson della situazione, grazie a una visione periferica ideale e a una perfetta affidabilità nel prendere le scelte più giuste negli schemi offensivi di Kerr. Già, Steve Kerr, il tecnico che nella Baia di San Francisco dall’autunno del 2014 ha fatto indossare a Green l’abito tecnico che più gli si addiceva. Oltre a ciò, è da fare un plauso a Bob Myers, general manager dei Warriors che hanno scritto una dinastia nel gioco ideato da James Naismith, perché la notte del Draft 2012 Myers ha riconosciuto prima degli altri il talento insito di Draymond, il facilitatore fondamentale per il sistema dei Warriors, abile a giostrare tra le posizioni di ala grande e centro per l'innovativa small ball. Gli stessi Guerrieri non sarebbero una delle squadre più vincenti della storia senza di lui, un giocatore necessario in una squadra piena di talento e campioni.
Ma l’ineffabile Green è anche e soprattutto il cuore pulsante dal punto di vista caratteriale di Golden State. È un leader assoluto, uno a cui non manca mai il trash talking con gli avversari, ti entra sottopelle se sei il suo dirimpettaio; battibecca persino con arbitri e giornalisti. Però è pure quell’elemento che cerca sempre di dare una parola di sostegno o un consiglio tattico ai compagni. Crediamo che dopo le Finals del 2016 perse contro i Cavs – determinante in negativo per i Warriors l’assenza di Green per squalifica in gara 5 – fosse come un leone ferito in gabbia che avesse attraversato una discesa agli inferi e volesse affrancarsi da ciò. Così è stato, dal momento che l’anno successivo Draymond si impossessò del premio di miglior difensore dell’anno, partecipò all’All-Star Game (tre apparizioni totali per lui) e fu il leader generale nella classifica delle palle rubate. Palle rubate che in gergo Nba si traduce con “steals” e per creare una correlazione linguistica, Draymond Green ora è utilizzato come benchmark di riferimento per valutare le più riuscite steals of the draft nella storia della lega americana.
Alcuni dei famosi siparietti tra Draymond Green e i compagni di squadra. Pensiamo stesse rivolgendo loro dei messaggi per nulla sibillini.
3- Tony Parker, 28esima scelta dei San Antonio Spurs nel 2001.
Uno dei tanti capolavori del front office e dello staff tecnico dei San Antonio Spurs. Robert Canterbury (per tutti RC) Buford è il general manager dei texani da quasi vent’anni e per il Draft del 2001, in accordo con lo staff tecnico guidato da coach Gregg Popovich, pesca dai bassifondi della 28esima chiamata un playmaker franco-belga dalle buone prospettive, vale a dire Tony Parker. Probabilmente nemmeno nel più roseo degli scenari Buford e Popovich pensavano di ritrovarsi fra le mani una delle pietre miliari dell’epopea neroargento delle ultime due decadi in Nba, ma sicuramente il loro fiuto manageriale si è dimostrato ultra-sagace.
Così Parker sotto il tutorato di Popovich si è trasfigurato dall’Mvp dell’europeo under 20 del 2001 – vinto dalla Francia grazie a un TP inarrestabile da 25.8 punti, 6.8 assist e 6.8 recuperi di media – nel playmaker che per oltre un decennio ha abbagliato gli scenari delle arene Nba sfoderando un bigino approfondito sul come tenere le redini di una squadra che ha dominato l’intera lega americana. Anche se c’è da dire che il Parker “primordiale” ha dovuto subire il “trattamento Popovich”, cioè quello di attraversare – al contrario – accompagnato da Caronte, il fiume - in questo caso si può immaginare il River Walk caratteristico di San Antonio - costellato di panchine punitive e cazziate varie. TP ha reagito nel migliore dei modi, instaurando all’ombra dell’Alamo con il suo coach e con altri due interpreti elitari del gioco (Duncan e Ginobili) un team che ha scritto la storia dello sport professionistico americano, alzando al cielo quattro Larry’O Brien Trophy (nel 2003, 2005, 2007 e 2014) e plasmando la franchigia più vincente di tutto il globo terracqueo degli ultimi vent’anni.
Il franco-belga ha foraggiato il tabellino personale incamerando in totale 15.5 punti e 5.6 assist a partita nella lega a stelle e strisce. Parker, che nei primi anni in Nba preferiva mandare ai matti i lunghi avversari tra zingarate mozzafiato sottocanestro, lay-up imprendibili e pick’n roll conclusi alla velocità della luce, nella fase “adulta” della sua carriera ha diversificato il playbook individuale. Più gestore della bacchetta dell’orchestra che scorer puro, mutando il suo raggio di tiro. TP infatti risultava letale pure con le conclusioni dal gomito, dal mezzo angolo e assestava un teardop leggero come una piuma dalla lunetta. Il peak della sua vita nella competizione americana l’ha registrato alle Finals del 2007 contro i Cavs. San Antonio sciolse la pratica in sole quattro partite e Parker sciorinò delle prestazioni leggendarie da 18.6 gettoni e 5.5 assist ad allacciata, valevoli per appropriarsi del titolo di Mvp delle finali. Successivamente, complici alcuni acciacchi fisici, il suo impatto si è leggermente affievolito, Parker non andava più via a suo piacimento tra i pitturati statunitensi. Ma dopo la melodrammatica dipartita subita dagli Spurs nelle Finali del 2013 – indimenticabile la leggendaria bomba di Ray Allen per gli Heat in gara 6 – il francese nel remake con Miami dell'anno seguente ha dipinto l’ultima tela da grande artista del gioco, dirigendo come un nocchiero la corazzata San Antonio verso la balsamica redenzione, dall’alto magistero della sua cattedra in regia.
Nell’estate 2018 ha salutato il Texas dopo 17 anni d’oro nella franchigia dell’Alamo, da dichiarato tassello imprescindibile dei Big Three oroargento. Da lì una sorta di cameo agli Hornets e un anno fa la decisione di ritirarsi, a 37 anni. Ora TP è il presidente dell’ASVEL, la squadra di basket di Villeurbanne. Il suo cammino in Nba è stato luccicante come quello di una cometa, impreziosito per di più da un’altra opera maestra, la conquista dell'Europeo del 2013, portando da Mvp del torneo la nazionale transalpina sul tetto d’Europa.
Non ci si può non emozionare di fronte alla cerimonia del ritiro della maglia #9 di Monsieur Tony Parker.
2- Marc Gasol, 48esima scelta dei Los Angeles Lakers nel 2007.
Unire i punti dei trattini tracciati da Marc Gasol nella sua retta durante l’esperienza in Nba (ancora in corso) non è scontato. Tuttavia, il file rouge pare voler seguire i tratteggi disegnati dal fratello più grande – di 5 anni – Pau. Perché voler sfondare nello stesso sport in cui tuo fratello maggiore dà spettacolo ed è un campione da un lustro prima di te, non deve essere facile. Per qualcuno è come portare un masso di Sissipo appresso, per Marc invece no, perché ora anche lui appartiene a pieni diritti alla cerchia dei più grandi cestisti europei di sempre.
“Big Burrito”, il nomignolo non così gradevole affibbiato a Marc Gasol durante la sua permanenza al Lausanne Collegiate School per qualche kg di troppo, è un pivot di 211 cm a cui Madre Natura ha riservato delle mani da pianista, come al precursore Pau, e un’intelligenza cestistica per pochi eletti. Certamente i Lakers furono bravi in principio a pescare Marc alla numero 48 (poco comprensibili i motivi per cui finì in zone così paludose del Draft) nel 2007, ma i gialloviola “utilizzarono” il fratellino come asset per impossessarsi dei diritti di Pau. Strategia trionfante, dato che i Lacustri ottennero due titoli Nba con Pau Gasol co-protagonista insieme a Kobe Bryant. Quindi gran parte del merito dello sviluppo straordinario di Marc da ottimo giocatore – prima di sbarcare oltreoceano aveva alzato il trofeo Acb col Barcellona e si era fregiato del titolo di Mvp del campionato spagnolo in maglia Girona – in un interprete del gioco che ha raccontato narrative memorabili, va dato ai Memphis Grizzlies.
Raccolta di gemme del repertorio di Marc Gasol. P.S. Marc e il fratello Pau sono entrati nella storia nell'All-Star Game 2015, in quanto per la prima volta due fratelli partivano in quintetto nella serata delle stelle.
Marc è stato una bandiera della franchigia del Tennessee, una permanenza lunga undici anni (dal 2008 al 2019) nei quali l’ex allievo di Pau nelle partite che i due disputavano da piccini a casa Gasol, si è esposto tra i principali cultori della materia cestistica “centri dalla visione di gioco celestiale”. Difatti Marc era il playmaker occulto di quei Grizzlies – suo compagno sotto le plance era l'alter ego Zach Randolph – dal furente marchio Grit and Grind che per diversi anni hanno spaventato la Western Conference. Griffe del basket di “Big Burrito” sono gli assist poetici, il multicolore gioco in post basso e in post alto, la bidimensionalità acquisita negli anni – ora è fulgido anche dalla lunga distanza – e una concezione difensiva cerebrale. Nonostante un atletismo meno vigoroso dei suoi pariruolo, Marc sa aiutare da dio nella sua metà campo, sbaglia raramente i tempi dei raddoppi difensivi, con le braccia lunghe oscura la vallata e rende la pariglia a tanti suoi “equivalenti”. Ha intimato terrore a tutti gli attacchi delle squadre della Nba e nel 2013 si è aggiudicato il premio di miglior difensore della competizione.
In orbita nazionale, Marc ha fatto parte della generazione di campioni spagnoli insieme al fratello Pau, Juan Carlos Navarro, Ricky Rubio e molti altri, facendo razzia di tutto quello che si può vincere, eccetto le Olimpiadi. Ma per il resto, Marc si è messo al collo due ori europei e due ori mondiali. L’ultimo giunto un’estate fa in Cina, quando la Roja si arrampicò sulle sue possenti spalle nei momenti clou di semifinale e finale, e Gasol “jr” divenne un uragano che spazzò via le resistenze di Australia prima e Argentina poi. In aggiunta, sul piano fisico ha trascorso un vissuto lineare e un anno fa ha incorniciato la ciliegina sulla torta del suo palmares. Nel febbraio 2019 è passato ai Raptors e durante i playoff è stato soprannaturale both-ends, diventando un fulcro di Toronto che ha vinto l’anello Nba. Gasol, nomen omen, farà sempre rima con pivot fuoriclasse.
Non solo un campione sul parquet, ma anche fuori. In questa foto del 18 luglio 2018, che ha fatto il giro del mondo, è ritratto Marc Gasol su una nave di Proactiva Open Arms. Sta salvando l'unica superstite ad un naufragio al largo delle coste libiche. Il catalano è molto attivo sul fronte dell'impegno umanitario.
1- Manu Ginobili, 57esima scelta dei San Antonio Spurs nel 1999.
Per nulla semplice trovare un attacco ideale da dedicare alla più grande steal dei Draft degli ultimi 20 anni della Nba. Perché questo primato è attribuito a Emmanuel David Ginobili, uno dei soli due cestisti della storia – insieme a Bill Bradley – ad avere in bacheca almeno un titolo di Eurolega, un campionato Nba e una medaglia d’oro olimpica. Ma questa inverosimile statistica non basta per raccontare la grandezza dell’argentino nato a Bahia Blanca in una calda estate di quasi 43 anni fa. Ginobili impersonifica il compendio del fuoriclasse sportivo su scala mondiale. È stato un’emblema per la sua nazione sudamericana e una delle tre preziosissime tessere del puzzle dei Big Three di San Antonio che, come detto poc’anzi sulla parte relativa a Tony Parker, hanno letteralmente fatto il bello e il cattivo tempo per oltre 15 anni in Nba.
Se su Wikipedia cliccate sulla pagina di Ginobili e vi soffermate sul palmares, di squadra e personale, vi accorgerete che la lista di premi accumulati da “El contusion” è interminabile. I metalli più pregiati fanno capo sicuramente ai 4 anelli Nba (2003, 2005, 2007, 2014) indossati con gli Spurs e l’oro olimpico conquistato con l’Argentina alle Olimpiadi di Atene del 2004. Ma Ginobili ha pure vinto l’Eurolega e una Serie A con la Virtus Bologna nel 2001, un argento con la sua nazione nei Mondiali del 2002 a cui aggiungere il riconoscimento di Mvp della Serie A per due stagioni, il miglior Sesto Uomo della Nba e il titolo di Mvp dei giochi olimpici ateniesi. Forse l’highlight più evocativo della sua carriera è stato mandato in onda in quelle Olimpiadi, quando aiutato dagli altri esponenti della Generacion Dorada – Scola, Prigioni e Nocioni su tutti– prese in mano la scena cestistica planetaria nella terra degli dei.
Eppure, Ginobili è stato selezionato dagli Spurs con la numero 57 nel Draft 1999, troppo in basso per il suo reale valore, una sorta di furto con scasso praticato dai texani. Tuttavia, nel 1998 il primo ad accorgersi del disarmante talento della guardia mancina è Gaetano Gebbia, responsabile del settore giovanile della Viola Reggio Calabria che decide di portarlo in Italia. Da lì, prima dell’allunaggio nel mondo Nba, gli Spurs concedono all’argentino tre anni di “gavetta” europea per forgiarsi maggiormente, tra Reggio Calabria e Vu Nere. Il 2002 è l’anno perfetto per entrare definitivamente in casa neroargento.
Anche lui deve sottostare all’iniziale “metodo Popovich”, fin quando dall’annata 2004-2005 si consuma la consacrazione dell’abbacinante classe cestistica dell’argentino. Ginobili è dotato di un primo passo infrenabile, di un radar telegrafico in grado di permettergli di effettuare traccianti-assist immaginifici, di un variegato set di skills offensive da patrimonio Unesco, oltre a un’arte venatoria nel divenire determinante con una singola giocata, anche con delle intangibles, e una sinistra abilità nel recuperare palloni. Le gesta di Ginobili narrano di un campione quasi eterno, ritirato a 40 anni suonati, ma che nel Lato B della sua carriera ha smussato il suo portfolio cestistico, levigandolo in maniera certosina a sesto uomo di lusso in un roster pazzesco come erano gli Spurs di Popovich. Negli ultimi spiccioli di carriera, per togliere il pane di bocca alle nuove leve, ha perfezionato morigeratamente il suo gioco, sopperendo con la tecnica, l’intelligenza e l'esperienza quell’acido lattico creatosi a seguito di annate ad accatastare kilometri sulle gambe. Sino all’ultima gara giocata – il 24 aprile 2018 la gara 5 dei playoff contro Golden State – l’argentino ha ballato il suo tango, spinto da una mentalità vincente con pochi uguali. Se si dovesse rappresentare Ginobili con una scultura, sarebbe degna di quella di un Bernini. Un lascito scolpito e da donare ai posteri, illustrante un argentino da Bahia Blanca seduto allo stesso tavoli dei migliori del mondo della palla a spicchi americana.
Se avete voglia di fare pace con il mondo, gustatevi decine delle centinaia di giocate meravigliose inscenate dal prestigiatore Manu Ginobili.
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