5 da rivedere: un viaggio nel tennis di Roger Federer
Sportellate non vi lascia soli in questa quarantena. Nelle scorse settimane vi abbiamo raccomandato alcuni libri sportivi da leggere e alcuni film sportivi da guardare. Ora è il turno dei consigli relativi ad alcune gare storiche che ogni appassionato sportivo dovrebbe assolutamente recuperare. Abbiamo scavato nella nostra profonda memoria, creando alcune categorie all’interno delle quali troverete 5 eventi da vedervi comodamente online. Oggi ci godiamo 5 "momenti Federer".
Ok. Da quando l’attualità ha fatto irruzione nel nostro quotidiano senza chiedere il permesso, abbiamo fatto, vissuto e pensato tutto e il contrario di tutto. Le costrizioni accendono la fantasia e acuiscono i sensi un po’ come un’arcigna marcatura a volte esalta i dribbling nello stretto e i passaggi filtranti visionari. Per cui tra una lotta serrata per la spesa on-line, una gita meravigliosa nel locale spazzatura e un’accanita partita a pallamuro in attesa del bollettino delle sei, la mente viaggia, scatenata dalla prigionia, spaziando dall’alta filosofia fai da te all’ardore civile indignato, attraverso una ben più lunga fase di salutare cazzeggio intermedio un po’ poetico ma soprattutto prosaico.
Scegliete voi dove collocare ciò che riguarda lo sport. La borsa del basket pronta lì in un angolo che ti guarda con gli occhi lucidi, l’odore delle palline da tennis che in un istante ripercorre la tua esistenza da capo a fondo… contemplare il vuoto sull’app dei risultati che un tempo ti faceva battere il cuore. È in questi momenti che i punti di riferimento sono chiamati a fare il proprio dovere, salvandoti l’anima. E allora lascio che la mia mente torni al cospetto del Re – senza corona, eh – e ne contempli le gesta immortalate negli arazzi della sala del trono. Volevo scegliere cinque partite fondamentali, ma ho trovato più che altro sono cinque scenari, cinque avversari, cinque occhiate rubate al vasto mondo rogeriano. Squarci di un passato che – mi rendo conto ora – non è affatto concluso, ma vive e si rinnova.
5) Parigi mon amour (Roland Garros, 1 giugno 2009)
Rafa Nadal è appena stato eliminato dal celeberrimo Robin Soderling. Apriti cielo. Il trono del Roland Garros è senza padroni. È l’occasione per Roger. Ma si sa che in questi frangenti si rischia di pensare troppo in là e smarrire la concentrazione sul qui e ora. In questo stato d’animo l’elvetico scende in campo contro Tommi Haas, amico e giocatore dalla classe sopraffina, dotato tra le altre cose di un rovescio che rapisce la sguardo come pochi altri. L’ex numero due è in giornata e ne viene fuori un duello d’alta scuola in cui Roger, troppo teso nei momenti decisivi, si ritrova sotto due set a zero (7-6, 7-5) e palla break a sfavore sul 3-4 nel terzo: in pratica un match point per il tedesco. È un solo quindici, ma vale un patrimonio. Arpionato quel punto – per non parlare dello scambio psichedelico con lob e controlob che gli ha fruttato il break nel game successivo – Roger si libera e fa suo il match con la fretta quasi violenta che a volte lo prende. La visuale odierna rende ancora di più l’importanza di questa partita, e di quella palla, perché apre la prospettiva sliding doors su una bacheca rogeriana zoppa. In fondo - lo dimentichiamo per colpa della sua grandezza - stiamo parlando di uno che a Parigi ha giocato otto semifinali (l’ultima nel 2019, dopo aver saltato due intere stagioni sul rosso) e cinque finali e che ha rischiato di non vincerlo, lasciando incompleto il Career Grand Slam.
4) La torre di Tandil (Londra, 3 agosto 2012)
Se le rivalità tennistiche fossero montagne, quella tra Federer e Del Potro sarebbe un ottomila, magari non troppo noto a causa dei colleghi più famosi, ma ugualmente crudele, impervio e magico. Purtroppo la carriera dell’argentino è stata una via crucis di infortuni, ma qualcosina l’abbiamo vista lo stesso, per referenze chiedere a Roger Federer che ci ha perso la drammatica finale Us Open 2009, Basilea 2013 e il master1000 di Indian Wells 2018, con tre match point sprecati.
Bene, per rendere l’idea non c’è niente di meglio che la semifinale delle olimpiadi londinesi del 2012. Le occasioni mancate da Federer nel secondo set e l’assenza di tiebreak nel terzo conducono il match direttamente sulla strada della leggenda. Un duello rusticano che si conclude fra le lacrime di entrambi e lo svizzero che chiude 19-17 un set durato due ore e quarantatré minuti – quattro ore e ventisei l’intero match, non male per una partita al meglio dei tre set - e raggiunge la finale per l’oro. Perderà con Murray, ma questo non toglie nulla all’impresa.
3) Il giardino di casa (Wimbledon, 5 luglio 2009)
Se fossi Andy Roddick mi sveglierei ogni mattina pensando alla mia carriera senza Federer. Se fossi Andy Roddick mi sarei costruito da tempo una bambolina voodoo di Roger e passerei le mie giornate a riempirla di spilloni. Cos’altro potrei fare dopo che uno mi ha battuto 21 volte su 24, che mi ha sottratto tre titoli ai Championship – e una semifinale tanto per gradire – oltre ad avermi sconfitto nella finale degli Us open 2007 e in due semifinali a Melbourne? Ma Roddick è un tipo di spirito e non l’ha presa poi così male. La partita è l’ultimo atto londinese del 2009. Si sa che i numeri non bastano a riassumere l’emozione del tennis ma in questo caso qualcosa dicono: 4 ore e 16 minuti, 77 game, 50 ace e 107 vincenti sono serviti al re per aggiudicarsi il sesto titolo, in un match finito 16-14 al quinto set. Decisivo il secondo parziale in cui Roger annulla quattro set point (per il 2-0) prima di vincere al tie break. Dopo la maratona persa con Nadal nel 2008, Roger si riappropria di ciò che gli appartiene, ma deve dare fondo a tutta la propria capacità di soffrire.
2) Il dolore mio più grande (Wimbledon, 14 luglio 2019)
L’eroe non si nasconde, anzi può raggiungere l’apice della bellezza nel momento dell’estremo sacrificio, nel fango e nella sconfitta.
Ed ecco allora che è venuto il momento di parlare della finale di Wimbledon 2019 con Novak Djokovic (sì, quello lì, lo stesso che ha vinto 27 dei 50 precedenti, carnefice di tre finali ai Championship e una allo Us Open e altre 7 semifinali Slam) il match più sofferto.
Fate conto che su questa partita sto cercando di scrivere un libro, per cui metto a dura prova la mia capacità di sintesi oltre alle mie emozioni. È un ricordo che brucia ancora a prescindere dall’acqua che è passata sotto i ponti. Non che ami troppo crogiolarmi in pensieri deprimenti, ma sarebbe disonesto escludere questo match da una qualsiasi classifica. Uno degli incontri più crudeli di ogni epoca: lungo, drammatico, brutale. A vederlo con distacco (ah, vederlo con distacco!) sarebbe un distillato di godimento estetico, un trattato di resilienza, un manuale avanzato di psicologia applicata, un’opera d’arte in movimento, con l’impatto stordente e profondo del paradosso e del dolore. Più cerco di dimenticarla e più me la ricordo; più l'analizzo e meno riesco a trovare falle nel gioco di Roger, se non l’unica decisiva e devastante e inequivocabile verità: la sconfitta.
Solo il cielo sa quanto ho odiato Nole quel giorno. Tutto si condensa nei due matchpoint mancati sul proprio servizio, 8-7, 40-15, ma è la classica partita che vale una vita, piena di svolte e controsvolte, alcune palesi per l’importanza dei punti, altre nascoste nelle pieghe della psiche. Nole che alle corde si trova bene è rimasto lì, un uomo che affronta a mani nude lo tsunami, ma alla fine si trova in piedi. Vince due incredibili tiebreak nel primo e nel terzo, perde il secondo e il quarto, sciupa il vantaggio nel quinto e poi si ritrova con l’acqua alla gola. Sembra sempre sul punto di crollare, ma non crolla mai. Infine, nel surreale tiebreak imposto sul 12-12 dalle nuove discutibili regole, afferra la partita e la fa sua, quasi più esausto che felice.
Sono sicuro che Wimbledon 2019 troverà un secondo tempo, un compimento o comunque un suo senso. Per il momento rimane una domanda senza risposta, sospesa nell’aria, una sconfitta dove paradossalmente lo sconfitto si prende tutta la scena a dispetto dei meriti del vincitore. Ho capito subito che non si poteva cancellare, per cui ho cercato di ribaltarla, di trasformarla in qualcosa di positivo. E alla lunga ci riuscirò.
1) Resurrezioni (Australian Open, 29 gennaio 2017)
Ormai è chiaro a tutti che Roger e Rafa si considerino due facce della stessa medaglia. Sanno di doversi parecchio l’un l’altro, forse più di ciò che si sono tolti, la sfida tra loro si è innestata sulla sfida con se stessi che è sempre il tennis e li ha spronati ulteriormente a superarsi, a migliorare e ad alzare l’asticella a livelli impensabili. Non si odiano, anzi il rispetto che li lega ha assunto negli anni i tratti dell’affetto. Non si tratta di amicizia in senso stretto, ma del legame profondo di chi è andato oltre lo scontro sportivo e considera l’antagonista necessario a se stesso e viceversa, come due parti di un tutto che altrimenti non troverebbe compimento. Quasi una forma d’amore. Va bene, per questo dualismo, anche volendo limitarsi alla parte puramente sportiva, non basterebbe un libro, figuriamoci lo scorcio di un articolo. In 40 incontri – 24 a 16 per l’iberico – di cui 24 finali, ce ne hanno fatte vedere di cotte e di crude e può sembrare difficile la scelta di una partita, quando devi escludere tre finali di Wimbledon – quella drammatica del 2008, tra le più belle della storia – e tante altre sfide stellari – sempre a Wimbledon, per dire, la semifinale 2019, che ha chiuso idealmente il cerchio aperto undici anni prima – eppure non ho il minimo dubbio.
Questa è la partita che porterei con me su un’isola deserta, quella che salverei come ultimo baluardo dal nulla imperante che mi divora i ricordi, quella che rivedrei se potessi tornare indietro e rivederne una come fosse la prima volta. È il 29 gennaio 2017, una domenica mattina d’inverno e stiamo per scartare, come un regalo di Natale in ritardo, la finale degli Australian Open che nessuno avrebbe previsto – sì, ora sembra strano, ma è proprio così. Roger e Rafa, accomunati da un destino strano, identico e beffardo, hanno entrambi saltato la seconda metà del 2016, e l’impressione è che il tempo abbia presentato il conto definitivo. Certo lo spagnolo è più giovane, ma il suo tennis di lotta è ben più usurante, perciò non pare strano che a cavallo della trentina imbocchi il viale del tramonto, mentre Roger, be’ lui è da molti ritenuto al crepuscolo già da tanto tempo – non vince uno Slam dal 2012 e sembra che nessuno abbia notato il numero di piazzamenti che per altri varrebbero una carriera, due finali e una semifinale a Londra, la finale a New York, insomma c’è quasi sempre lo zampino di Djokovic, lui sì, all’apice dello splendore.
Ma, a dispetto delle più cupe previsioni, i due ruderi lottano come leoni e scalano tabelloni insidiosi – partivano al numero 17 e 9 del ranking mondiale – finendo due volte al quinto set. Nel frattempo però le clamorose eliminazioni di Djokovic - campione in carica, battuto al secondo turno da Istomin – e Murray – numero uno,sconfitto da Zverev senior agli ottavi spianano la strada per il clamoroso ritorno. Gli ultimi ostacoli sono Wawrinka e Dimitrov, ma il destino non si può fermare e così le due semifinali, entrambe tiratissime, danno il verdetto che tutti gli appassionati aspettano.
Sarà un nuovo Fedal, clamoroso, inatteso e romantico. La fatica dei turni precedenti è surclassata dalla voglia di riprendersi il trono. Il copione è scritto dai migliori sceneggiatori. Il re gioca con il braccio libero e la leggerezza di chi è solamente felice di trovarsi lì. Il suo tennis è aggressivo e vario, con un rovescio più spinto usato spesso al posto del back. Nadal dal canto suo sfodera il consueto agonismo, non molla un centimetro a livello mentale e, infilandosi come un tarlo negli alti e bassi fisiologici dello svizzero, recupera due volte lo svantaggio di un set. Si va al quinto, perché così è scritto nelle alte sfere. Tutto cospira a favore di Rafa, perché sembra onestamente impensabile che Roger possa reggere ancora, tanto più che si fa subito strappare il servizio e si trova sotto. Con coraggio si procura le occasioni per il controbreak, ma le spreca più volte. Sembra il preludio della solita malinconica resa degli ultimi anni, ma il re si ribella al fato e dal tre a uno infila cinque game consecutivi. A dirlo ci vuol poco, ma se l’avversario è Rafael Nadal non esiste una via facile. Sono cinque game di pura lotta e sofferenza, con vantaggi alternati e scambi da infarto. Nemmeno l’ultimo, in cui Roger serve per il match, si sottrae a questa legge con due velenose palle break e un primo matchpoint mancato. Quando il dritto di Federer si stampa sulla riga c’è un altro sussulto, in attesa del falco. Poi sono lacrime di gioia e brividi che mi tornano ancora adesso. Sì, non è facile definire una top five rogeriana ma sulla partita del cuore non ho alcun dubbio. Poi con Roger non si sa mai, una parte di me è convinta che la migliore debba ancora arrivare.
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