Il Draft NBA non è una scienza esatta
Prendere 10 grammi di scouting reports e shakerarli insieme ad altri 20 grammi di statistiche avanzate. Mescolare con un pizzico di osservatori sparsi in giro per il globo, aggiungere svariate sessioni di workout e colloqui individuali prima della notte disegnata. Ecco fatto. Questo dovrebbe essere l'abbozzo della ricetta scientificamente perfetta progettata da ogni franchigia, per individuare al Draft NBA il prodotto ideale da sviluppare per ipotecare un roseo futuro.
E invece no, i dolorosi coup de théâtre sono sempre dietro l'angolo. É minuscolo il guado ed è breve il passo dallo scegliere un prospetto da svezzare e plasmare nel migliore dei modi verso una star affermata, al nominare un flop catastrofico. C'è chi segue la filosofia del BPA (Best player available), chi invece opta per il fit migliore in base al roster e contesto a disposizione, e chi sprezzante del pericolo punta tutte le fiches su un possibile boom. Scottarsi però è molto facile e il potenziale craque si può tramutare in un nefasto bust (bidone).
Nella storia della NBA - il primo draft si è svolto nel 1947, ancora in epoca BBA (Basketball Association of America) e la prima draft lottery si è tenuta nel 1985 - una sicurezza più o meno certificata fa rima con lo scegliere per primo, se c'è l'opportunità, il big man che può modificare visibilmente il volto di una franchigia. Alla luce di ciò, diversi Gm negli scorsi decenni hanno preso cantonate fragorose. Basti pensare che nel 1984 la prima scelta dei Rockets fu Hakeem The Dream" Olajuwon, alla terza Chicago prese Sua Maestà Michael Jordan. Charles Barkley andò alla quinta e John Stockton persino alla 16. Ma la dirigenza dei Blazers, detentrice della seconda scelta, forse ebbra d'alcool quella sera, designò la chiamata di Sam Bowie, centrone in uscita da Kentucky. Flagellato durante la transumanza in NBA dagli infortuni, Espn ha insignito Bowie alla voce principale della blacklist come peggiore scelta di sempre; Sports Illustrated nel 2005 lo ha nominato più grande bidone di sempre. Altri esempi terrificanti fanno l'occhiolino a Michael Olowokandi, nigeriano-britannico di 213 cm e prima scelta dei Clippers nel 1998, fuori dai radar NBA nel giro di pochi anni. Oppure il celeberrimo Jonny Flinn, chiamato dai T'wolves prima di Stephen Curry nel 2009. Scelte che negli anni successivi hanno comportato il ludibrio da parte degli opinionisti e degli addetti ai lavori.
Si sa pure che del senno di poi son piene le fosse, ad ogni modo il sottoscritto ha provato a stilare la Top 10 dei busts del Draft NBA degli ultimi 20 anni (1999-2018); lasso di tempo determinato soprattutto per questioni anagrafiche di chi ha redatto la speciale graduatoria.
10- Dragan Bender: scelta numero 4 dei Phoenix Suns nel 2016.
Premessa: si parla di un ragazzo classe 1997 che ha tutto il tempo per derubricare il suo nome da questa infausta classifica. Ma trascorse quasi quattro stagioni dal suo sbarco oltreoceano, Dragan Bender non ha lasciato alcuna traccia di spessore durante il suo “allunaggio” in NBA. I Suns, nel draft che ha visto alla prima scelta Ben Simmons, alla seconda Brandon Ingram e alla terza Jaylen Brown, credevano di trovare in Bender una sorta di Porzingis 2.0. Un sette piedi con le mani da guardia tiratrice. Difatti il croato è alto oltre i 2.10 metri (2.16 per l’esattezza), autentico stretch four ed è europeo come l’ “unicorno” Porzingis, che nello specifico è nato in Lettonia. Ma i grandi numeri registrati con il Maccabi Tel Aviv, che hanno convinto Phoenix a spendere per lui la quarta scelta nel 2016, non hanno avuto una controprova nel teatro cestistico più eccelso al mondo.
Dopo tre annate costellate da un poco clemente downgrade, Bender l'estate scorsa ha inizialmente firmato con i Bucks, e prima della pandemia Covid-19 - che al momento ha fatto abbassare le saracinesche alla lega professionistica americana - aveva strappato un decadale con Golden State. Il potenziale di qualità non si è totalmente dissolto e Bender potrebbe rappresentare ancora quel profilo ideale per la NBA moderna, uno della sua taglia che sa correre e tirare è prezioso come platino al giorno d'oggi. Tuttavia, sembra che al croato manchino soprattutto la determinazione per sfuggire a quel turbinio perpetuo, misto di fisicità imponente e voglia di emergere a tutti i costi, che malignamente sa essere la NBA per i big man poco agonistici. A chiosa, si deve sottolineare che prima di chiamare Bender, Phoenix l’anno precedente aveva pescato con una scelta alta – la 5 – un altro lungo che non ha propriamente rispettato le aspettative come Alex Len. Pensare che al posto dell'ex Maccabi il Gm di allora dei Suns, Ryan McDonough, poteva telefonare a Jamal Murray; – selezionato dai Nuggets alla 7 – il play che poteva sposarsi alla perfezione con l'attuale stella della squadra Devin Booker. Al contrario per Bender il ticchettio dell'orologio biologico in NBA pare già segnare l'ora del viale del tramonto.
Per quanti anni Dragan Bender riuscirà ancora a sopravvivere in NBA?
9- Greg Oden: scelta numero 1 dei Portland Trail Blazers nel 2007.
Bust clamoroso o uno dei più nostalgici “what if” degli ultimi 15 anni del gioco inventato da James Naismith? Il filo su cui ballo la risposta è più sottile di quello usato dagli equilibristi prestigiatori. Chi sta scrivendo è propenso a barrare la seconda opzione, per il semplice motivo che Oden fino a quando le sue ginocchia hanno retto, ha mostrato di avere le qualità per diventare un centro dominante in Nba. L'alba della sua vita in Nba è stata però un inquietante segnale premonitore. Il marcantonio di 213 cm per 129 kg ha infatti saltato la prima stagione per sottoporsi ad un difficile intervento chirurgico a causa di una microfrattura alla cartilagine del ginocchio destro. Partito piano per lucidare a puntino la sua "carrozzeria" fisica, Oden poi si inserisce nella squadra della Rip City che aveva in dote in quelle annate due ottimi violini del calibro di Brandon Roy e Lamarcus Aldridge. Ai playoff del 2009 i Blazers andarono ko al primo turno contro i Rockets di Yao Ming (serie sancita dal 4-2 di Houston). Arriviamo al 5 dicembre 2009. Al Moda Center va in scena il match di regular season tra Portland e Houston. Oden salta al ferro per proteggere una penetrazione avversaria di Brooks. Ma cade malissimo. Non riesce ad alzarsi da terra. La diagnosi è una croce per il prosieguo della carriera del nativo di Buffalo: frattura della rotula del ginocchio sinistro.
Il bruttissimo infortunio occorso ad Oden nel 2009 che ha segnato il triste epilogo della sua carriera.
Da lì la prima scelta del 2007, uscito dalla Ohio State University con Steve Kerr che lo aveva definito "Once in a decade player", ha iniziato un lento ed inesorabile declino verso l’anonimato, giocando solamente 82 partite complessive in quattro anni. Ha provato a dare energia ad un’ultima fiammella della speranza firmando con gli Heat nel 2014. Ma le continue ricadute e le varie problematiche che hanno colpito le sue dannate ginocchia di cristallo, hanno sancito gli ultimi sussulti della carriera di un cristone che era dotato di un arsenale tecnico sotto canestro di primo livello, che nel 2016 ad appena 28 anni si è ritirato dal basket. Il destino è stato subdolo con il prodotto di Ohio State, il quale ha inoltre sofferto di depressione e di problemi di alcolismo. In conclusione, il fatto per cui si possa ritenere Oden un bust pieno, sta in particolare in due aspetti correlati: il numero uno, concerne proprio gli stessi Blazers; il numero due ripone su chi avrebbe potuto scegliere Portland al luogo di Oden. La franchigia dell’Oregon, che nel 1984 non scelse un certo Michael Jordan con la 2, bensì un tale Sam Bowie, se non avesse puntato su Oden avrebbe potuto assicurarsi un giovincello di nome Kevin Durant, si dice inizialmente snobbato dalla formazione della Rip City perché “troppo magro”.
8- Jay Williams: scelta numero 2 dei Chicago Bulls nel 2002.
“Life is not an accident – Memoir of Reinvention” è il titolo della biografia di Jay Williams uscita nel 2016. Il racconto di una storia drammatica e al tempo stesso emblematica degli sportivi che oltrepassano il limite degli eccessi. Perché Jason David Williams, scelto alla numero 2 dai Chicago Bulls nel 2002 - solo perché alla 1 i Rockets non potevano non selezionare Yao Ming - era un playmaker dal talento immane, uscito da Duke University e fresco di titolo NCAA; ciò nonostante il suo percorso nella NBA è terminato di fatto il 19 giugno 2003. Jay – nome scelto per evitare di essere confuso con Jason“White Chocolate” Williams e Jayson Williams – aveva quasi 22 anni quando quel giorno si schiantò con la sua moto contro un lampione nella zona nord di Chicago. Non indossava un casco, né possedeva una patente per poter guidare un motociclo in Illinois. Si fratturò il bacino, si ruppe tre legamenti del ginocchio sinistro e danneggiò in modo serio il principale nervo della gamba. Aveva una passione per le due ruote, una predilezione che si ritorse contro di lui e lo estirpò dai palcoscenici stellari della NBA da giovanissimo. Eppure, i Bulls nel 2002 puntarono su di lui per la ricostruzione nel post dinastia di quella Chicago che con Jordan, Pippen e Phil Jackson scrisse la storia della palla a spicchi.
Entrato in NBA dalla porta principale, Williams veniva descritto come la classica point guard dalla grande visione di gioco e dal fisico ben strutturato (188 cm per 88kg). Al college con Duke, Jay era il leader dei Blue Devils e nel 2001 li aveva guidati al titolo insieme ai compagni Boozer e Dunleavy Jr, mettendo a referto 25.7 punti e 6.1 assist di media, tanto da appropriarsi del premio di “College Basketball’s Player of the Year” e si conquistò la reputazione di miglior prospetto dell’anno. Tuttavia, del suo passaggio nella National Basketball Association si ricorda solamente la prima stagione non troppo esaltante da rookie. E dopo il tragico incidente in moto del 2003, i Bulls lo tagliarono senza pagargli alcuno stipendio, in quanto aveva violato una delle più importanti clausole del contratto. Williams non si arrese, nel 2006 i Nets gli diedero una possibilità, ma nulla da fare, ormai era game over per lui. A 25 anni, da una delle comete più lucenti del panorama americano collegiale, stava scendendo nell'oblio. Genio e sregolatezza si dice. Ecco, Williams - oggi analista di Espn - ha potuto dimostrare al mondo, tristemente, le conseguenze della seconda voce del binomio poc’anzi citato. Un errore, fatale, che ha mandato a rotoli il suo grande sogno.
Jay Williams parla a cuore aperto del grave incidente, di pensieri di suicidio, del suo "rehab" e del suo libro.
7- Nikoloz Tskitishvili: scelta numero 5 dei Denver Nuggets nel 2002.
Il lungo georgiano dal cognome di complicata pronuncia non ha lasciato alcun genere di impronta dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Malgrado prima della sua chiamata in NBA Tskitishvili avesse palesato le sue ottime doti da tiratore tre e da rimbalzista in Italia. Scoperto da Maurizio Gherardini, ai tempi dg della Benetton Treviso, quando militava con Lubiana in terra slovena, l’ala grande – alto più di sette piedi – in maglia trevigiana vinse anche uno Scudetto in biancoverde. Allora i Denver Nuggets individuarono nel georgiano il profilo perfetto, sperando di foggiare un novello Dirk Nowitzki, il tedesco che nel 1998 venne scelto dai Mavericks e incominciava a edificare il suo regno a Dallas. Quelli del Colorado credevano che Tskitishvili avesse le carte in regola per essere la prossima big thing della NBA. Un 2.13 dalle ottime capacità atletiche in grado di sparare dal perimetro con percentuali scintillanti. Tutt’altro. Fu un fallimento totale, tanto che Skita impacchettò la miseria di 2,9 punti di media in 4 stagioni nella superlega americana. Tirò con un povero 24,3 % dall'arco e rimbalzò nelle altre annate statunitensi fra Golden State, Minnesota e Phoenix. Nel 2007 Tskitishvili fece ritorno nel Vecchio Continente, nello specifico in Spagna a Siviglia, riuscendo a girovagare in diverse squadre europee per una decina d’anni.
Tskitishvili, fragorosa meteora orbitata quasi per sbaglio in NBA, ha giocato anche nella Benetton Treviso.
6- Derrick Williams: scelta numero 2 dei Minnesota Timberwolves nel 2011.
Nel preambolo non si può non sottolineare che nel draft del 2011 gli Spurs – via Pacers – scelsero Kawhi Leonard alla numero 15, Golden State alla numero 11 pescò dal mazzo Klay Thompson e alla 9 Charlotte designò Kemba Walker. Detto ciò, a posteriori è facile parlare, però risulta difficile, quasi enigmatico, comprendere le ragioni per cui Minnesota intravide in Derrick Williams un possibile craque. Il tweener, appena uscito dal college di Arizona, era considerato un giocatore intelligente e maturo per ritagliarsi una lunga carriera in Nba. Sebbene ci sia da considerare che i T’Wolves nel 2011 avevano già in roster un frontcourt giovane e talentuoso farcito da Michael Beasley (scelto alla 2 dagli Heat nel 2008 e altro lapsus di portata non indifferente). Nella sua seconda stagione Williams collezionò una media di 12 punti a gara e pareva avesse trovato la connection ideale sul parquet con Ricky Rubio. Quella fu solamente una vetta, un culmine di carriera mai più toccato dall’ex Arizona. Dopo alcune comparsate non memorabili in canotta Lakers, ora Derrick Williams milita al Fenerbahce. Vicino lo stretto del del Bosforo sta cercando di imporsi come una star dell’Eurolega. Al momento i risultati sono alterni, per un giocatore dalle esplosive capacità atletiche, che però sembra non riuscire a combinare lo sviluppato hardware con il software.
Una combinazione spettacolare dell'asse Rubio-Williams in maglia Minnesota.
5- Adam Morrison: scelta numero 3 dei Charlotte Bobcats nel 2006.
Il draft di quell’annata sarà ricordato in particolare poiché per la prima volta nella storia della NBA, un giocatore europeo fu selezionato con la prima scelta assoluta. Un romano che noi tutti dovremmo ricordarci, vale a dire Andrea Bargnani. Tralasciando sul fatto che il Mago avrebbe potuto fare di meglio nel campionato più spettacolare del mondo, in quella “turnata” i Charlotte Bobcats del responsabile draft His Airness Michael Jordan, scelsero alla numero tre Adam Morrison. Storia particolare la sua. Partiamo prima dal basket giocato. Nella stagione collegiale 2005-2006, Adam Morrison, di Gonzaga University, inscenò contro JJ Redick di Duke – shooting guard che ora milita ai Pelicans – un duello per assicurarsi il premio di miglior giocatore nazionale del college. Vinse Redick, ma Morrison viaggiò con una media estasiante di 28,1 punti ad allacciata. L’ala piccola, in cui alcuni addetti ai lavori vedevano la nuova “speranza bianca” del calibro del suo idolo Larry Bird, divenne sempre più famosa anche per il suo outfit. Capelli anni ’70, baffi “eccentrici” e ragazzo sincero. Anche troppo quando ammise in un’intervista di avere in camera un poster di Che Guevara.
In un racconto video di un anno fa, Adam Morrison racconta la sua esperienza a Gonzaga, quando era un baby prodigio desiderato da tutta la NBA.
Sbarcato nel difficile pianeta NBA, il dinoccolato Morrison – con un fisico asciutto e ben diverso dal tipico giocatore della superlega statunitense tutto muscoli – visse una prima rispettabile annata a Charlotte (11.8 gettoni a gara). Dopodiché un gravissimo infortunio al ginocchio sinistro lo fece tenere ai box per un anno, con i Bobcats che lo girarono ai Lakers nel febbraio 2009. Le strane coincidenze hanno voluto che Morrison vincesse due anelli durante la sua permanenza ai Lacustri di Kobe Bryant e del maestro zen Phil Jackson. A giochi fatti però, la terza chiamata del draft 2006 scaldò le panchine di tutte le arene degli Stati Uniti. Partecipò negli anni successivi a qualche cameo in Summer League con le maglie di Wizards, Nets, Clippers e Trail Blazers, ma nel 2011 abbandonò l’America collezionando complessivamente 161 gare in NBA, con una media di 7.5 punti a partita. Un disastro. C’è pure da sfogliare l’altro petalo della margherita della vicenda sportiva di Adam Morrison. Perché il grande talento universitario soffriva di diabete di tipo 1. Scoprì della malattia a 14 anni, eppure Morrison amava così tanto la palla a spicchi che per nessun motivo al mondo voleva darla vinta al diabete. Con l’aiuto di un endocrinologo ottenne il permesso di fare ciò che più desiderava e la sua avventura appassionò tutti gli americani, tanto da divenire un idolo per tanti coetanei di allora. Ad oggi però, Morrison sarà ricordato per essere stato inghiottito dal tritacarne della NBA.
Un giovane Morrison con i poster di Che Guevara e Larry Bird.
4- Hasheem Thabeet: scelta numero 2 dei Memphis Grizzlies nel 2009.
Nasci e cresci in Tanzania, sviluppi un possente physique du role. Tale da assomigliare a quella montagna d’ebano di Dikembe Mutombo. A 15 anni decidi che il basket è il tuo sport. Ti trasferisci con la famiglia in Kenya e ti fai notare da un gruppo di americani in vacanza mentre scalzo regni sui campetti kenioti. Tu, Hashim Thabit – in America nomenclatura trasformata in Hasheem Thabeet – sei un Titano in mezzo ai lillipuziani tuoi coetanei, e con l’aiuto dei sopracitati turisti statunitensi voli negli Usa, precisamente a Houston per tentare la scalata al successo. L’africano sul parquet era un diamante grezzo da svezzare minuziosamente. Anche linguisticamente parlando, dato che Thabeet masticava lo swahili e il francese, ma poco l’inglese. Nel 2006, a 19 anni, Thabit si iscrisse alla University of Connecticut. Wingspan da paura, alto 221 cm, il tanzaniano a UConn redasse un record: ben 10 stoppate inchiodate contro Texas Southern. Nella stagione 2008-2009 - da junior - Thabeet si fa notare risolutivamente da tutte le franchigie del mondo luccicante soprastante la NCAA. 13.6 punti e 10.8 rimbalzi di media, 152 stoppate complessive. Numeri troppo esosi per non essere rispettati dagli scout delle franchigie NBA, inoltre con Connecticut che alle Final Four collegiali vide interrompersi il sogno per colpa della Michigan State di Draymond Green. Draft Nba 2009: i Clippers con la prima scelta si aggiudicano Blake Griffin. La seconda chiamata è a possesso dei Memphis Grizzlies. Il Gm della franchigia del Tennesse, Chris Wallace, punta sul gigante della Tanzania. Da Dar es Saalam, all’élite del basket mondiale, come la prefazione di un viaggio memorabile. Ma il nuovo capitolo che si prospettava ricco di successi per Thabeet, si trasforma in un paragrafo tragico. A Memphis sbarca Zach Randolph, che con Marc Gasol formerà la coppia di lunghi benchmark del “Grit and Grind” dei Grizzlies che si consolidò circa una decade fa. Thabeet avrà pochissimi minuti a disposizione, e in quei pochi frangenti di gioco si dimostra un pesce fuor d’acqua. Le medie parlavano da sole: 3.1 punti, 3.6 rimbalzi a match. Tanto che il tanzaniano finì nei meandri della D-League soltanto un anno dopo il suo approdo in Nba. È l’alba del suo tramonto cestistico. Provò a ridestarsi ai Rockets o ai Blazers, visse un sussulto ai Thunder nel 2012. Nulla da fare. Era troppo limitato nei movimenti offensivi e troppo lento per la NBA che iniziava ad aprirsi al run and gun. E pensare che nel Draft del 2009 erano eleggibili anche Stephen Curry, James Harden, DeMar Derozan o Jrue Holiday; meglio non ricordarlo ai Grizzlies.
Il tweet di Hasheem Thabeet del 26 marzo.
3- Kwame Brown: scelta numero 1 dei Washington Wizards nel 2001.
Kwame Brown detiene un record: è stato il primo giocatore proveniente dalle High School ad essere selezionato con la prima scelta assoluta in un Draft NBA. Una sorta di macigno da portarsi appresso e con cui ha convissuto anche LeBron James. Ma se “The Chosen One” è riuscito ad assumere le sembianze di Atlante e si è preso il mondo della palla a spicchi a stelle e strisce sulle spalle, Kwame Brown è finito rovinato da quel masso. Una pressione che non ti molla il fiato e che diventa infinitamente opprimente se viene corroborata dal fatto che a scegliere il pivot sbarcato dalla Glynn Accademy High School della Georgia fu Michael Jordan, allora presidente dei Wizards (MJ è stato divino sul parquet, ma in quanto a draft scouting deve forse prendere qualche ripetizione).
Kwame Brown il giorno in cui venne presentato ai Wizards insieme a Sua Maestà Michael Jordan.
Si vocifera che il ragazzone altro oltre i 2,10 metri e appena 19enne, rivolse queste mal profetiche parole prima del Draft 2001 a Doug Collins, coach di Washington: “Se mi scegli nel Draft, non te ne pentirai mai”. Ma il centrone dei Maghi, inneggiato come il nuovo salvatore della patria, chiuse il suo anno da rookie con solamente 4.5 punti e 3.5 rimbalzi a match. Il terzo anno in NBA sembra quello giusto, quello in cui Brown può finalmente indirizzare il volo verso la crème de la crème dei lunghi americani, grazie al buon fatturato nei pitturati statunitensi (10.9 punti e 7.4 rimbalzi di media). Errore. Da lì il centro comincia a battibeccare con la dirigenza prima, per motivi legati all’estensione contrattuale. E con Gilbert Arenas poi. Nei playoffs 2005, Agent Zero girò un video dove chiedeva ai tifosi di non fischiare Brown al suo ingresso in campo. Apriti cielo. Difatti il pivot dichiarò: “Se entrassi in campo sarei costretto a fare a pugni con Arenas”. Così Brown saltò diversi allenamenti. Uno per un poco chiaro mal di stomaco, sbugiardato da alcuni rumors che dicevano di aver visto Kwame mangiare in un ristorante cinese a tarda notte. Allora l’arrogante Brown venne dirottato ai Lakers nell’estate di quell’anno. Nel 2006 le cifre dell’ex Wizards subiscono un picco d’incremento – 12.3 punti e 9.1 rimbalzi a sfida – tuttavia le prestazioni continuarono ad essere altalenanti. Dulcis in fundo, la prima scelta del 2001 doveva difendersi da un’accusa di stupro da parte di una donna che riferì alla polizia di aver subito un’aggressione sessuale da Brown al termine di gara 3 dei playoffs contro Phoenix. Il tribunale scagionò Brown, che ritornò in voga per l’episodio della “Torta”. Kwame lanciò una torta al cioccolato contro un uomo che voleva fare una foto insieme a Ronny Turiaf, compagno di squadra di Brown, e poi scappò in limousine. Il bersaglio pare dovesse essere lo stesso Turiaf. Sicuramente Kwame Brown, risucchiato ancora per qualche stagione nella mediocrità della NBA, ha mancato l’obiettivo principale: sfondare in Nba.
Il 1° febbraio 2008 i Lakers scambiarono Kwame Brown ed altri assets (tra cui i diritti di Marc Gasol) ai Grizzlies in cambio di Pau Gasol, che poi avrebbe rivestito il ruolo di secondo violino nei Gialloviola di Kobe Bryant che alzarono due Larry O'Brien Trophy consecutivi. Ecco le impressioni a caldo "pacate" di Stephen A. Smith su Kwame Brown e sulla trade di allora.
2- Anthony Bennett: scelta numero 1 dei Cleveland Cavaliers nel 2013.
Nell’antefatto non si può non nascondere una verità: Anthony Bennett è con tutta probabilità la peggior prima scelta assoluta della storia della Nba. A postilla si dovrebbe anche dire che il Draft 2013 è stato uno dei più aridi per quanto riguarda rigogliosi e verdi prospetti da plasmare nel piano più alto, basti pensare che delle prime 10 top picks, solo Oladipo e McCollum si sono ricavati importanti spazi negli anni venturi (in quella notte al Barclays Center di Brooklyn venne selezionato anche Giannis Antetokounmpo alla 15, ma questa è un’altra storia). Detto ciò Anthony Bennett, canadese che al college si era distinto come minaccia offensiva nei pressi del canestro, alla University of Nevada Las Vegas si impose per la facilità con cui andava al ferro (1,39 punti per possesso sotto le plance) e per una wingspan irreale di 215 cm per uno alto 2,03 metri. Poco amante del gioco in post, Bennett preferiva aggredire la partita fronte a canestro grazie alla lunghezza delle interminabili braccia e alle ottime capacità al tiro (a UNLV sparò con il 37% dalla lunga distanza). Aveva le carte in regola per cucirsi un abito da sera nella NBA attuale, generando pericolosità e spaziature di spessore tramite le frecce della sua faretra offensiva. Tuttavia, si deve specificare una controparte mastodontica, l’altro lato della medaglia. Se in attacco la produzione di Bennett generava frutti di qualità, in difesa il canadese generava un albero spoglio e schernito da tantissimi coetanei universitari. Qualche capacità da rim protector la possedeva è vero, ma per il resto si interessava poco della lotta a rimbalzo ed era per nulla dedito alla tenzone nel pitturato difensivo; si scioglieva come neve al sole nella sua metà campo.
Fatto sta che Bennett in quel Draft non era reputato un prospetto da Top-3 per le continue amnesie difensive, ma i Cavs decisero di puntare su di lui per risollevare una franchigia che nel 2011 vide prima Lebron James volare per i lidi di Miami, e poi selezionare Kyrie Irving alla numero uno del Draft della stessa annata. Paradossale un’anteprima emersa qualche anno più tardi sulla decisione della franchigia dell’Ohio: il Gm dell’epoca, Chris Grant, pare volesse Ben McLemore. Il proprietario Dan Gilbert preferiva Victor Oladipo. Tuttavia, dopo la votazione interna allo staff e alla dirigenza dei Cavs venne premiato Bennett. Una completa sciagura. Il canadese pensava di essere il numero uno, si allenava poco, si presentò 7 kg sovrappeso al training camp. Un biglietto da visita drammatico che si convertì in un imbarazzante 0/16 al tiro nelle prime quattro gare nel basket professionistico americano. Visibilmente fuori forma, le tappe della via crucis di Bennett in ordine cronologico fanno riferimento a Minnesota, Toronto, Brooklyn, Fenerbahce in Europa e un anno fa l’Agua Caliente Clippers in G-League (non era mai accaduto che una prima scelta assoluta andò a giocare nella lega di sviluppo della NBA). Dalle stelle alle stalle nel giro di un lustro. “Appena le cose sono andate per il verso sbagliato, per lui è stata la fine” ha raccontato David Griffin, Gm dei Cavs dal 2014 al 2018. Così il fragile Bennett si è fatto trascinare nel buco nero del basket USA.
I tanti, troppi, eloquenti errori di Anthony Bennett appena sbarcato in NBA.
1- Darko Milicic: scelta numero 2 dei Detroit Pistons nel 2003.
LeBron James, Darko Milicic, Carmelo Anthony, Chris Bosh, Dwyane Wade. È la lista, in ordine decrescente, della Top Five del Draft 2003. Inevitabilmente non ci si può accorgere di un nome che stona con l'armoniosa sinfonia orchestrata dagli altri quattro. Già, quel Darko Milicic che a detta del sottoscritto è il più grande flop del Draft Nba degli ultimi 20 anni. Dato che i Pistons – impossessatosi di quella scelta via Memphis – a quei tempi disponevano di un quintetto che avrebbe dominato gli scenari della Eastern Conference per circa cinque stagioni. Erano una rivisitazione dei tanto amati Bad Boys degli anni ’80 capeggiati da Isiah Thomas e Joe Dumars, materializzatisi nel quintetto di coach Larry Brown che nel 2004 conquistò l’anello con Detroit. Uno starting five che ha lasciato il segno nel cuore di tutti gli amanti del gioco, con il backcourt composto da Mr. Big-Shot Chauncey Billups, Rip Hamilton e il filiforme Prince, a cui si sommava il frontcourt spaziale innalzato dai due Wallace, l’istrionico Rasheed e la torre di controllo Ben. Una formazione completa in ogni dove, che però scialacquò clamorosamente una scelta così alta. Perché avessero optato per uno tra Anthony, Bosh o Wade, sicuramente potevano disporre di una base importante per erigere una novella dinastia. Tuttavia, Joe Dumars – allora Gm di Detroit – incappò in un abbaglio a cose fatte eclatante: “É stato un errore, certo, sceglierlo con la numero 2, le fonti che avevamo erano poche, ci siamo fidati. Da quel momento in poi, abbiamo imparato la lezione, le informazioni e lo scouting sul giocatore che scegliamo sono numerosissime” ha ammesso una decina di anni dopo Dumars. Ma agli albori della sua carriera, il diciottenne serbo Darko Milicic sembrava avesse i connotati cestistici perfetti per reincarnarsi in una sorta di nuovo Kevin Garnett: alto 215 cm, mani dolci come il miele e faccia tosta contro tutti.
L'ex cestista serbo è stato il più giovane giocatore ad aver disputato una finale NBA a 18 anni e 356 giorni.
Dall’Hemofarm Vrsac - formazione dove militava - venne catapultato nel “mare di piranha” in cui la NBA sa trasformarsi. Milicic fu un bidone di dimensioni colossali. Larry Brown a Detroit non ha mai provato a sviluppare il talento della seconda scelta del 2003, che incartò panchine su panchine. Pure il serbo, che nel frattempo conquistò il titolo del 2004 da attore per nulla protagonista, ci mise del suo. Se Penelope faceva e disfaceva la tela per aspettare Ulisse, Darko non faceva nulla, tanto da perdere la passione per la pallacanestro: “Sono arrivato nella NBA con la scelta numero 2, credevo di essere stato mandato nella NBA da Dio, arrivavo dall’Europa, pensavo di essere uno che poteva competere con Duncan o Gasol, quando non ero minimamente pronto per affrontarli. Rapidamente cominciai ad avere problemi con tutti, litigavo con tutti, mi ubriacavo prima degli allenamenti, e non capivo che ero il peggior nemico di me stesso” ha fatto sapere Milicic qualche anno più tardi. Nel 2006 è stato coinvolto in una trade che lo ha portato ad Orlando, poi Memphis, New York e infine ha attraversato una sorta di “mini-redenzione” ai Timberwolves fino al 2012. Ma l’accidia per il basket e la fragilità mentale lo avevano definitivamente travolto, e dopo il ritiro dalla palla a spicchi giocata Milicic scelse la ripida strada della kickboxe; salvo disputare un solo combattimento - perso - nel 2014. Ora dovrebbe gestire una fattoria nella campagna serba e per molti è divenuto un personaggio di culto.
Un breve video che tratta la triste parabola della carriera cestistica di Darko Milicic. Dalla seconda chiamata al Draft 2003, al titolo NBA con i Pistons, ai festini ricchi di bevande alcoliche, lo sperpero dei soldi e l'essere arrivato a pesare quasi 160 kg. Passando per la mesta avventura da kickboxer, giungendo alla vita da raccoglitore di ciliegie.
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