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, 26 Febbraio 2020

Alle origini del catalanismo blaugrana


L'evoluzione della storia del Barcellona e del suo rapporto con l'indipendentismo.

In un fresco e umido ottobre di 120 anni fa, un giovane imprenditore svizzero pubblica un annuncio curioso: cerca altri dieci uomini, appassionati di “Foot-Vall”, per formare una squadra e organizzare qualche partitella. Il messaggio si trova nelle pagine finali di Los Deportes, rivista illustrata spagnola che si occupa di automobilismo, ciclismo, scherma, aviazione e che, occasionalmente, dedica qualche colonna anche agli sport minori, quali il futbol. Il nome del giovane imprenditore è Hans Gamper e il suo annuncio ottiene un successo a dir poco insperato. Innanzitutto, trova immediatamente dieci compagni di gioco e la compagine esordisce poche settimane dopo, il 29 novembre, sul campo del ginnasio Solé. Ma il successo più importante è quello a lungo termine: la sua squadra diventerà, nel corso dei decenni successivi, un brand famoso in tutto il mondo, con un valore superiore al miliardo di Euro. La bacheca strariperà di trofei nazionali ed internazionali e i suoi colori saranno sostenuti da tifosi sparsi su tutti i cinque continenti.

La stessa società, esattamente a 120 anni di distanza da quel fatidico annuncio su Los Deportes, pubblica un nuovo comunicato: «Oggi più che mai, il Club chiede a tutti i responsabili politici di guidare un processo di dialogo e negoziazione verso la risoluzione questo conflitto, un processo che dovrà permettere la liberazione dei leader civici e politici condannati.» Ovviamente la squadra in questione è il Futbol Club Barcelona: non una semplice squadra di calcio ma mès que un club.

L'annuncio di Gamper che porta alla fondazione del Barcellona
L'annuncio pubblicato da Gamper nell'ottobre 1899 (fonte: Arxiu Revistas Catalanes Antiguas)

Negli ultimi due anni, da quando la questione dell’indipendenza catalana è esplosa in tutte le sue contraddizioni a seguito al referendum del 1° ottobre 2017 ed ha riempito le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo, molti hanno risollevato le buone e vecchie discussioni riguardo il rapporto tra sport e politica. In particolare, il Barcellona, alcuni suoi tesserati e l’ex più ingombrante, Pep Guardiola, sono stati criticati per le loro prese di posizione a favore del referendum, contro la repressione violenta perpetrata da Policia Nacional e Guardia Civil e in sostegno ai politici e agli attivisti arrestati.

Da un lato c’è chi sostiene che le società sportive – e a volte persino gli atleti nel loro privato! – dovrebbero restare completamente al di fuori del dibattito pubblico su temi che esulino dallo sport (tra le capofila di questa fazione, almeno in teoria, ci sono FIFA e UEFA), mentre dal lato opposto c’è chi vorrebbe un maggior coinvolgimento da parte degli atleti, data la loro straordinaria visibilità e la conseguente capacità di influenzare mercati da miliardi di dollari e punti di vista di miliardi di appassionati.

Per onestà intellettuale, metterò subito in chiaro come la penso su questo tema: il personale è politico e, tanto le società quanto i singoli sportivi, hanno pieno diritto di esporre liberamente e pubblicamente le proprie opinioni su qualsiasi argomento possibile e immaginabile, essendo cittadini come tutti gli altri. Ma, attenzione, è un loro diritto e non deve essere considerato un dovere. Inoltre, come sottolineato in due interessantissimi articoli pubblicati su Gli Stati Generali e Ultimo Uomo, il voler forzatamente escludere la politica dal calcio non fa altro che creare spinosi gineprai di contraddizioni da cui è difficile districarsi.

Questo è però ciò che molti vorrebbero imporre al Barcellona: un distaccato e ipocrita silenzio in merito a ciò di cui tutta la città, tutta la Catalogna, tutta la Spagna e gran parte dell’Europa stanno discutendo animatamente. Secondo alcuni, il Barcellona, la sua dirigenza ed i suoi giocatori dovrebbero semplicemente far finta di niente.

Tuttavia, pretendere un distacco della società blaugrana dalla vita politica catalana significherebbe non soltanto voler cancellare con un colpo di spugna la storia del Barcellona e del suo legame con la Catalogna, ma voler negare la sua identità più profonda che, fin dal giorno della sua fondazione, è fortemente orientata alla politica, intesa come difesa e promozione di precisi valori sportivi e soprattutto sociali: questi valori non vengono nascosti o celati, ma orgogliosamente esposti persino nel sito ufficiale della società, dove viene dichiarato apertamente che il Futbol Club Barcelona sostiene la democrazia, promuove il cambiamento sociale e rivendica le proprie radici catalane.

Per avere più chiaro come calcio e politica siano due temi legati a doppio filo nelle vicende della Ciutat Comtal, è quindi necessario comprenderne le radici storiche profonde, facendo luce sul primo trentennio di storia barcelonista, sulla storia del suo fondatore Hans Gamper e su come quest’uomo, amante dello sport e della democrazia, abbia voluto plasmare la sua società intorno al fermento politico catalanista e repubblicano che permeava la Catalogna di inizio Novecento.

Casa Amatller e Casa Battlò, magnifici esempi del modernismo catalano a Barcellona

Dunque, la storia del Futbol Club Barcellona comincia in un momento cruciale dello sviluppo economico, politico e culturale catalano. Durante la seconda metà dell’Ottocento, Barcellona comincia a svilupparsi come grande porto del Mediterraneo occidentale e come unico centro di produzione industriale in Spagna. La città cresce da ogni punto di vista: arrivano immigrati e capitali tanto dalla Spagna quanto dal resto d’Europa, i così detti indianos - quei catalani partiti per fare fortuna a Cuba e Porto Rico - tornano a casa pieni di pesetas da investire, la popolazione aumenta e Ildefons Cerdà progetta un intero nuovo quartiere – l’Eixample, “Estensione” – per risolvere la crisi abitativa e contemporaneamente soddisfare le esigenze della nuova borghesia, che investe i suoi pesos nelle splendide facciate del Passeig de Gràcia dando il la alla nascita del modernismo catalano.

Nel 1882 viene posata la prima pietra della Sagrada Familia, tra il 1885 ed il 1900 l’impresario Eusebi Güell commissiona ad Antoni Gaudì il parco ed il sontuoso palazzo che portano il suo nome, nel 1896 un giovane Pablo Picasso apre il suo primo atelier in Carrer de la Plata. Allo stesso tempo, l’ultimo decennio del diciannovesimo secolo è anche lo zenith della renaixença politica, del recupero dell’identità linguistica, culturale e politica della Catalogna. L’indipendenza raggiunta da Cuba e Porto Rico nel 1898 in seguito alla sconfitta della Spagna nel conflitto Ispano-Americano aveva rinforzato lo spirito autonomista, che già aveva preso vigore con le elezioni del 1869, le prime a suffragio universale maschile.

Sempre nel 1882 venne fondato il Centre Català, la prima istituzione per la difesa della lingua e della cultura catalane e quattro anni dopo fu pubblicato Lo Catalanisme, il primo manifesto politico del catalanismo e, nel 1887, con la creazione della Lliga de Catalunya, il movimento culturale catalanista si trasformò in un vero e proprio partito nazionalista.

Questa era la frizzante aria di modernità, ricchezza, fermento politico e riscoperta culturale che si respirava nella Barcellona del 1899, quando l’imprenditore svizzero Hans Gamper pubblicò il famoso annuncio su Los Deportes. Inizialmente la squadra dello svizzero si identifica totalmente con la propria città: oltre al nome, fece proprio anche lo stemma. Tuttavia, dopo i primi successi nei tornei regionali, la squadra comincia ad avere sostenitori in tutta la Catalogna. Gamper, che come abbiamo già detto, oltre a giocatore di punta e presidente della società, era anche uno scaltro imprenditore, capisce che è il momento di allargare gli orizzonti: nel 1910 fa ciò che oggi chiameremmo una “operazione di rebranding”, inserendo nello stemma i colori della senyera e la croce di Sant Jordi, simboli storici della regione.

Con il passare degli anni, la politica di identificazione tra il Barcellona ed il catalanismo si fa sempre più marcata. Nel 1917 Gamper e i suoi soci decidono di sostituire il catalano al castigliano come lingua ufficiale nelle comunicazioni societarie e l’11 settembre dello stesso anno partecipano alla Diada (la giornata nazionale catalana in cui si commemora la sconfitta del 1714 che costò l’autonomia legislativa e culturale della Catalogna) nonostante la cerimonia fosse stata proibita dal governo di Madrid.

Nel 1918 la dirigenza blaugrana si spinge ancora oltre, sostenendo pubblicamente ed economicamente la campagna per l’autonomia organizzata dalla Lliga Regionalista, appoggiando la creazione della Mancomunitat (prima istituzione Catalana riconosciuta da Madrid dopo il 1714) e adottando un nuovo inno, El Cant del Barça, in cui la relazione tra sport e patria veniva fortemente enfatizzata. Come scrisse all’epoca il quotidiano La Voz de Catalunya «In questi dieci anni il Barcellona è passato dall’essere un club in Catalogna ad essere il club della Catalogna».

Evoluzione degli stemmi del Barcellona
L'evoluzione degli stemmi del Barça (fonte: fcbarcelona.com)

Questa storia prenderà una svolta drammatica nell’autunno 1923, quando il colpo di stato militare capeggiato dal generale Miguel Primo de Rivera prese il potere costringendo alle dimissioni il parlamento da poco eletto. La dittatura sospese immediatamente le libertà costituzionali e impose la legge marziale. La censura strinse le sue maglie intorno all’informazione, mentre la polizia segreta – i “segugi” – provava a cancellare qualsiasi opposizione politica e culturale. Parola d’ordine di Primo de Rivera era “unità” e ogni spinta autonomista doveva essere eliminata alla radice.

Pochi giorni dopo il golpe, il Ministro dell’interno Martinez de Anido pubblicò un decreto che proibiva l’uso della lingua catalana in spazi pubblici, il divieto di esibizione di bandiere o simboli legati alla Catalogna, scioglieva tutti i consigli municipali della regione e cancellava con un tratto di pena oltre cinquanta associazioni politiche e culturali nate nel cinquantennio precedente. Il Barcellona e i suoi tifosi furono colpiti, direttamente e indirettamente, in maniera durissima. Oltre alle proibizioni riguardo l’uso della lingua e l’esibizione di simboli, la dittatura impose al Barcellona di consegnare alla polizia segreta tutti gli archivi contenenti informazioni private sui soci membri, sui tifosi e sui calciatori.

Tuttavia, il governo di Primo de Rivera ottenne il contrario di quello che sperava: il Barça rimase l’unica istituzione ancora in vita che poteva essere associata al catalanismo politico. Lo stadio de Les Cortes divenne l’unico luogo di aggregazione in cui i catalani potevano parlare la propria lingua senza timore di essere arrestati e le bandiere blaugrana riempirono immediatamente il vuoto lasciato dal bando della Senyera. Il numero di soci membri aumentò a dismisura e le tribune del Les Corts erano piene all’inverosimile per ogni partita, anche quelle delle giovanili e l’atmosfera si faceva ogni settimana più tesa.

Non a caso, la prima manifestazione pubblica di aperta critica al regime ebbe luogo proprio a Les Corts, durante una semplice amichevole estiva. Era il 24 luglio 1925 ed il Barcellona si apprestava a giocare un amichevole contro il CE Jupiter, una squadra amatoriale con sede nel quartiere di Sant Andreu, alla periferia nord della città. L’amichevole, ovviamente, portava con sé un profondo significato politico: era stata organizzata per celebrare l’Orfeó Català, un’importante associazione musicale che promuoveva la musica tradizionale catalana e che aveva – e ha tutt’ora – sede nello splendido Palau de la Música Catalana, capolavoro assoluto dell’architetto modernista Lluís Domènech i Montaner.

Inizialmente il governo tentò di proibire l’incontro, ma le immense proteste che si sollevarono portarono a scegliere per quello che si pensava essere il male minore, così dopo una giornata di trattative i due club ebbero il via libera per giocare. Una mezz’ora prima del fischio d’inizio, la banda della Marina Reale Britannica – cui alcune navi erano di stanza a Barcellona – occupò il centro del campo per suonare, come era tradizione da qualche tempo, l’inno nazionale britannico e quello spagnolo. Al risuonare della Marcha Real, lo stadio si trasformò in una bolgia: fischi, sputi, lancio di oggetti, e grida sconce coprirono la performance.

Gamper insieme ai giocatori del Barcellona
Gamper con i suoi calciatori, 1922 (fonte: TV3 Catalunya)

Al contrario, God Save the King fu accolta da un religioso silenzio e, alla fine, omaggiata da un lungo applauso. Tutto questo era inaccettabile per Primo de Rivera, che appena avuta la notizia montò su tutte le furie, chiedendo lo scioglimento delle due società e l’abbattimento dello stadio. Impossibilitato a prendere misure così drastiche, il regime ripiegò su pene comunque durissime: Les Cortes venne chiuso per sei mesi e Hans Gamper, fondatore, ex calciatore, presidente e ideologo del Futbol Club Barcelona, fu arrestato, accusato di promuovere il nazionalismo catalano, obbligato a dimettersi dalla presidenza ed espulso per sempre dalla Spagna.

Tornò a Basilea, la città che aveva lasciato quasi trent’anni prima, ma la sua vita sembrava non avere più senso. Primo de Rivera lo aveva costretto a dire addio per sempre alla città che amava, alla famiglia e agli amici, a quella squadra che aveva fondato quasi casualmente ventisei anni prima e che nel frattempo si era trasformata in un’istituzione sportiva e politica rappresentante milioni di persone oppresse da una dittatura spietata. Esattamente cinque anni dopo i fatti, con proverbiale puntualità svizzera, il 30 luglio del 1930, Hans Gamper decise di togliersi la vita.

Il 1930 fu un anno di grandi capovolgimenti e nuove speranze per i repubblicani spagnoli. Il 30 gennaio, cinque anni dopo i fatti de Les Corts e pochi mesi prima del tragico suicidio di Hans Gamper (di cui vi avevamo raccontato nel primo episodio), avendo perso il sostegno delle parti sociali e del re stesso in seguito alla crisi economica del 1929, il generale Primo de Rivera rassegnò le dimissioni e mise fine a sette anni di dittatura militare. L’anno seguente, in seguito alla vittoria repubblicana nelle elezioni municipali, anche re Alfonso XIII si autosospese e fuggì in esilio.

Era nata la Seconda Repubblica Spagnola, un grande progetto democratico che si spense soltanto otto anni più tardi schiacciato dagli stivali dei falangisti. In questo biennio di transizione, il Futbol Club Barcelona scese in campo sostenendo direttamente e pubblicamente le proposte di riforma federalista e finanziando la campagna per la stesura dello Statuto di Autonomia per la Catalogna, ufficialmente approvato nel 1931 ma nuovamente ritirato cinque anni più tardi, in seguito alla proclamazione di indipendenza presentata dal governo regionale autonomo nel 1934.

Nel 1936 si tennero nuove elezioni nazionali che, tuttavia, furono le ultime per oltre quarant’anni: in seguito alla netta vittoria del Fronte Popolare – una grande coalizione di stampo marxista – gli alti gradi dell’esercito guidati dal generalísimo Francisco Franco tentarono un colpo di stato, trascinando il paese in una tremenda guerra civile che durerà fino al gennaio 1939. Il conflitto devastò trasversalmente tutta la Spagna, ma fu particolarmente violento in Catalogna, roccaforte federalista e anarco-sindacalista.

Giocatori del Barcellona nella stagione 1936/1937
Il Barcellona 1936-1937 (fonte: Blog de Carles Viñas)

Barcellona e Girona furono le ultime due città a cadere sotto i colpi dei nazionalisti ed il Barça pagò il suo attivismo politico con il sangue di migliaia dei propri tifosi, di alcuni calciatori e persino del presidente Josep Sunyol, deputato di Esquerra Republicana de Catalunya, arrestato e fucilato senza processo dai falangisti nell’agosto 1936. Fu proprio in seguito all’assassinio di Sunyol che il segretario del club Rosendo Calvet mise a punto un piano per salvare il Futbol Club Barcelona dagli attacchi del generale Franco. Calvet, con l’aiuto di impresari statunitensi, riuscì ad organizzare una tournée in Messico e negli USA che permise da un lato di mettere in salvo molti dei calciatori – alcuni dei quali scelsero di restare definitivamente in America – e dall’altro di guadagnare l’enorme somma di quindicimila dollari, depositata in Svizzera e così protetta dalle requisizioni forzate, che permise di evitare il fallimento della società.

Una volta terminata la guerra, la situazione dei blaugrana si fece ovviamente critica. Le prese di posizione repubblicane e federaliste del club erano state chiare e coerenti durante tutto il ventennio precedente, ed erano ritenute pericolose ed inaccettabili per il nuovo regime. Il 4 aprile 1939 il più importante settimanale sportivo spagnolo, Marca, chiudeva un lungo articolo con una sottile minaccia verso i blaugrana: “Al Barcellona F.C. come società sportiva, va la nostra ammirazione. Ma come incubatore di idee lontane dal modo di essere e dai sentimenti di ogni buon spagnolo, il disprezzo e la giustizia di Franco”. Lo stesso giornale, pochi giorni prima, presagiva addirittura la scomparsa del Barça: Del Barcellona non si sa nulla. Anche se non ci sarebbe nulla di sorprendente se cambiassero i colori della maglia, e se cambiasse persino il suo stemma. Prevale l’idea che anziché Barcellona, prenda il nome di España.

Per fortuna il regime non prese mai misure tanto radicali. Ciononostante, il Barcellona fu coinvolto nella vasta operazione di centralizzazione e omogeneizzazione nazionale imposta da Francisco Franco. L’uso delle lingue e dei simboli regionali fu proibito, così come le istituzioni autonome ed i corsi universitari che facevano in qualche modo riferimento a specificità regionali o alla cultura locale. Nel 1940 il Barcellona fu costretto ad eliminare la Senyera – la bandiera catalana – dal proprio stemma, sostituendola con quella spagnola. Il nome della società mutò dal catalano Futbol Club Barcelona al castigliano Barcelona Club de Fútbol e la presidenza fu assegnata arbitrariamente dal Ministro dello sport a Enrique Piñeyro y de Queralt Marqués de la Mesa de Asta, due nobili e militari molto vicini a Franco.

Può sembrare strano che, nonostante le minacce, il regime franchista decise di non dismettere dei club con un forte senso di appartenenza regionale quali il Barcellona o l’Athletic Bilbao ma anche questa mossa rientrava in un piano più ampio. Come fa notare lo storico inglese John Hargreaves, l’intenzione era di “trasformare gli stadi in una sorta di chiese nazionaliste, dove la Spagna ed i suoi valori potessero essere celebrati attraverso la propaganda, i rituali e i simboli del nazionalismo spagnolo”.

Immagine dell'inaugurazione del Camp Nou nel 1957.
1957: l'inaugurazione del Camp Nou (fonte: Archivo Marca)

Però, a dispetto del grande sforzo repressivo, Franco non riuscì mai ad eradicare nazionalismo catalano, men che meno dal cuore dei tifosi. Ancora una volta, il Barça si trasformava in un simbolo di opposizione sotterranea e lo stadio de Les Corts nell’unico luogo in cui i catalani potevano parlare pubblicamente la propria lingua ed esporre i propri simboli identitari senza correre grossi rischi. Fu in questo periodo che in Catalogna il Barcellona divenne l’unica istituzione capace di riempire il vuoto lasciato dall’assenza di rappresentazione politica, trasformando il tifo per una squadra di calcio in una vera e propria forma di opposizione al regime, rappresentato a livello locale dall’Espanyol e a livello nazionale dalle due squadre di Madrid.

Le tensioni, il dissenso e l’opposizione al regime allo stadio (che nel frattempo, dal 1957, era diventato il Camp Nou) rimasero comunque sotterranei per una trentina d’anni, finché la dittatura di Franco non allentò leggermente le proprie maglie. Ma, come già nel 1925, anche nel 1970 lo stadio del Barça divenne teatro di una delle prime proteste di massa contro il regime. Nei due decenni precedenti, Real e Atletico Madrid avevano dominato la Primera División, accaparrandosi ben 16 campionati su 20, non senza polemiche legate a presunti aiuti economici ed arbitrali gentilmente offerti dalla federazione. Nel giro di una settimana, tra maggio e giugno, Barcellona e Real Madrid si sfidarono in un doppio incontro per i quarti di finale di Copa del Generalísimo (l’odierna Copa del Rey). All’andata, giocata al Bernabeu, il Real si impose con un 2-0 molto discusso.

Nella partita di ritorno, sull’1-0 per il Barcellona, l’arbitro Emilio Guruceta fischiò un rigore palesemente irregolare in favore dei blancos che sancì l’1-1 ed il passaggio dei madrileni in semifinale. Già durante la partita i tifosi blaugrana, in preda alla frustrazione, cominciarono a divellere i seggiolini e a lanciarli in campo. Al triplice fischio, la rabbia del pubblico di casa esplose come non accadeva da decenni: migliaia di persone scavalcarono le recinzioni, entrarono sul campo di gioco e si scontrarono con la polizia per decine di minuti.

Anche se ai nostri occhi il cosiddetto “caso Guruceta” può sembrare un qualunque di violenza negli stadi, gli scontri del 6 giugno 1970 ebbero conseguenze fondamentali. Innanzitutto, la partita in sé fu eletta a simbolo dell’oppressione politica che colpiva i catalani persino in ambito sportivo. Inoltre, il Barcelona Club de Futból si impegnò nella difesa pubblica dei propri tifosi davanti allo stato e alla federazione, primo grande passo verso la trasformazione del club in un’istituzione pubblicamente catalanista e di opposizione al regime.

I tifosi del Barcellona invadono il campo durante il Clasico.
L'invasione di campo nel clasico del "caso Guruceta". (fonte: Mundo Deportivo)

Dunque, dall’estate 1970 il barcelonismo politico riprese tutto il suo vigore. La nuova dirigenza, guidata dal presidente Agustí Montal e da collaboratori quali Jaume Rosell, Armand Caraben e Joan Granados, era direttamente coinvolta nella ricostruzione dei partiti catalanisti, in particolare nel movimento socialdemocratico Convergencia Democratica de Catalunya. In quello stesso anno il bollettino ufficiale del Barcellona, distribuito gratuitamente al Camp Nou, tornò ad essere pubblicato – illegalmente – in catalano, per la prima volta dal 1939. Nel biennio successivo il club sostenne finanziariamente e promosse attivamente la campagna Català a la escola, che spingeva per la reintroduzione dell’istruzione in lingua catalana. Nella stagione ’72-’73 si cominciò ad utilizzare il catalano anche per gli annunci ufficiali all’interno dello stadio e a decorare le tribune con bandiere catalane, in barba ai divieti del regime.

Un’altra battaglia fondamentale combattuta dalla dirigenza blaugrana fu quella per la libertà di ingaggiare calciatori stranieri. Dal 1953, Franco aveva imposto l’obbligo di tesserare soltanto giocatori con nazionalità spagnola e, anche se molti club raggiravano la limitazione con fantasiose naturalizzazioni, questa regola era un pesante handicap, specialmente nelle competizioni europee. Ma soprattutto, tutto ciò andava contro i valori fondanti del Barcellona, nato sotto la stella del cosmopolitismo. Alla fine la pressione esercitata sulla federazione fu efficace e dal 26 maggio 1973 ogni squadra avrebbe potuto ingaggiare un massimo di due stranieri.

Questo cambiamento cambiò per sempre la storia del Barça, che soltanto un mese più tardi mise sotto contratto quello che all’epoca era il più forte calciatore al mondo, il quale segnerà per sempre le sorti del Barcellona e del calcio mondiale: Hendrik Johannes Cruijff, detto Johan. La più grande soddisfazione fu che Cruyff scelse esplicitamente Barcellona, rifiutando l’offerta del più blasonato Real Madrid. Guidati dal nuovo fenomeno olandese, i blaugrana tornarono a vincere la Liga dopo quattordici anni di astinenza.

Sebbene i cambiamenti avvenuti, anche grande alla pressione effettuata dal Barcellona, tra il 1973 ed il 1975 segnarono una svolta profonda nel panorama calcistico iberico, questo biennio fu caratterizzato da avvenimenti ben più rilevanti nel campo della politica nazionale. Certamente i risultati sportivi ebbero un forte impatto sulla percezione pubblica della politica e del ruolo di Francisco Franco, il quale, ormai ottantenne e malato, sembrava perdere mordente, ed il Barcellona, con una straordinaria sensibilità politica, ne approfittava, iniziando a sfidare apertamente il regime, reclamando diritti e libertà per sé, per i propri tifosi e per tutte le altre squadre.

Ma lo stesso Franco, dittatore brutale ma non stupido, si rendeva conto della situazione: il morbo di Parkison peggiorava lentamente ma in maniera costante e lui decise di preparare la successione. Dopo aver scelto come suo erede per il ruolo di capo dello stato un monarca cattolico, Juan Carlos I di Borbone, il caudillo lasciò invece la carica di Presidente del gobierno all'ammiraglio Luis Carrero Blanco e fece un passo indietro dalla politica attiva. Colto in segnale, l’anno successivo la dirigenza del Barcellona osò un altro passo avanti e stabilì il catalano quale lingua ufficiale nelle comunicazioni della società, mossa a cui né il governo né la federazione risposero.

Johan Cruyff firma il suo contratto con il Barcellona
Cruijff mentre firma il contratto con il Barcellona. (fonte: Archivo Marca)

Ma ad alzare l'asticella della sfida al regime non furono solo le società sportive: i vari gruppi di resistenza armata presenti sul territorio spagnolo, in particolare il gruppo terrorista basco Euskadi Ta Askatasuna (più noto con l'acronimo ETA) compresero che si trattava del momento più adatto per dare la spallata definitiva al governo falangista e decisero di colpire il più in alto possibile: «a este hijo de puta [Carrero Blanco] es mejor matarlo», sentenziò Iñaki Pérez Beotegui. Così il 20 dicembre 1973, sei mesi dopo la sua nomina, un attentato dinamitardo organizzato dall'ETA conosciuto come Operazione Orco, uccise Luis Carrero Blanco, ammiraglio e presidente del governo spagnolo.

Al suo posto, Franco nominò il ben poco carismatico Carlos Arias Navarro, che non volle (o non seppe) opporsi alla transizione verso la democrazia. Nel frattempo, le condizioni del generalísimo continuavano a peggiorare ed il 20 novembre 1975 Francisco Franco morì. Il regime franchista si era ufficialmente concluso e da quel giorno sarebbe iniziato un triennio di limbo istituzionale, la transición, che avrebbe portato la Spagna a diventare la monarchia costituzionale che conosciamo oggi. Ovviamente la questione catalana proseguiva, finalmente libera di esprimere le proprie istanze e farlo nella propria lingua. Con essa, proseguiva l’impegno politico del Futbol Club Barcelona.

Il 20 novembre 1975, verso le cinque del mattino, soltanto pochi mattinieri erano svegli e stavano ascoltando la radio o la televisione. Questi furono tra i pochi che, alle 5:25, udirono un messaggio incredibile e che molti attendevano da 39 lunghissimi anni: Francisco Franco era morto, la dittatura era finita! Finalmente si poteva tornare in piazza e gridare “Viva la democrazia!” in castigliano, in catalano, in asturiano, in gallego, in aragonese e persino in basco! Tuttavia, il percorso verso la democrazia sarebbe stato lento, moderato e fondato sul compromesso. La Spagna rimase per tre anni in una situazione di limbo, governata provvisoriamente da due personaggi – Juan Carlos I di Borbone e Carlos Arias Navarro – direttamente nominati da Franco negli anni precedenti, i quali avrebbero dovuto guidare il paese durante la stesura della costituzione democratica, entrata in vigore il 29 dicembre 1978.

Il cammino fu lungo e complesso e coinvolse sia i movimenti democratici, antagonisti al regime, che la classe politica franchista, riproducendo vecchie tensioni tra centralisti e regionalisti. Questi ultimi, in particolare i Catalani, che si erano già riorganizzati dai primi anni Settanta, riuscirono ad ottenere dell’assemblea il riconoscimento della regione come “nazione storica” all’interno dello stato spagnolo, senza però gli ampi spazi di autonomia politica e amministrativa desiderati.

Certo, la monarchia parlamentare era meglio di una dittatura fascista, ma a Barcellona si chiedeva di più. Quindi, nel 1979, le strade della politica e del Barça si incrociarono il 16 maggio ancora, questa volta a Basilea, quando i blaugrana di Neeskens e Krankl vinsero il primo trofeo europeo della storia del Futbol Club Barcelona, sconfiggendo il Fortuna Düsseldorf 4 a 3 nei tempi supplementari in finale di Coppa delle Coppe.

Oltre trentamila barcelonistas si riversarono per le vie della città, in una marea di birra e bandiere giallo-rosse, portando il Barça sul tetto d’Europa e gli occhi di tutta Europa sulla questione catalana e sulle trattative per l’autonomia. Intanto in Plaça de Catalunya e sulle Ramblas più di un milione di persone era scesa in strada per la più grande manifestazione pubblica dopo la morte di Franco, uno strano mix tra un carosello per la vittoria della Coppa e una manifestazione autonomista.

L’interconnessione tra calcio e politica era tanto palese e profonda che l’apice dei festeggiamenti si svolse in Plaça de Sant Jaume, il cuore politico della Catalogna. Dal terrazzo del palau de la Generalitat si affacciò Josep Tarradellas, l’uomo simbolo del catalanismo, neoeletto presidente dopo ventitré anni di esilio francese e grande tifoso blaugrana: «il trionfo di Basilea» disse orgogliosamente «non è soltanto una vittoria per il club, ma è una vittoria per l’intera nazione Catalana in un momento critico della sua storia!» Sei mesi dopo, a fine dicembre, l’Estatut de Autonomia fu finalmente approvato.

Durante gli anni Ottanta e Novanta, la Catalogna conobbe un periodo di rapida crescita in seguito all’ingresso della Spagna nella Comunità Europea, avvenuto nel 1986. La rapida modernizzazione, legata allo sviluppo delle infrastrutture e di un’economia di servizi, oltre che all’integrazione nel mercato europeo e alla posizione geografica strategica, permise alla città di Barcellona di diventare una meta appetibile tanto per i turisti quanto per gli investitori, tanto che nel 1988 riuscì addirittura ad essere selezionata per ospitare i Giochi Olimpici del 1992.

Questi furono un successo assoluto: con un inno cantato da Freddy Mercury, le vittorie di Carl Lewis e il mito del Dream Team di MJ, Larry Bird e Magic Johnson. Inoltre, la Spagna riuscì a vincere più medaglie (26) di quante ne avesse vinte in tutte le edizioni precedenti, sommate! Si registrò un boom sia nel numero degli atleti partecipanti che in quello dei visitatori e la città venne rinnovata da cima a fondo – e in alcuni casi trasformata – vedasi Montjuïc e la Barceloneta.

La spiaggia di Barceloneta prima degli interventi del 1992

Ma come sappiamo, in questa città particolare, spaparanzata tra mare e monti, esiste una magia per cui un fatto politico (come è l'organizzazione di un grande evento sportivo) deve essere accompagnato da un fatto calcistico. Sotto la presidenza di Josep Lluís Núñez, il Barcellona si era avvicinato al rango delle grandi d’Europa, vincendo altre due volte la Coppa delle Coppe (1982, 1989) e una Supercoppa Europea. Proprio nel 1992, un paio di mesi prima dei Giochi, il Barça di Cruijff – questa volta allenatore – vince la sua prima Coppa dei Campioni, battendo la Sampdoria uno a zero, a Wembley, con gol di un olandese, Ronald Koeman, al minuto centododici. Questa vittoria permise definitivamente al Barcellona di entrare tra “le grandi” d'Europa e avviò il processo sportivo e imprenditoriale che la porterà a dominare per lunghi tratti il calcio degli anni duemila.

Pep Guardiola alza la prima Coppa dei Campioni della storia del Barcellona.
Un giovanissimo Guardiola solleva la Coppa dei Campioni 1992 (fonte: Arxiu La Vanguardia)

Il regno barcelonista di Josep Lluís Núñez, che durò dal 1978 al 2000, corrispose al regno politico di Jordi Pujol i Soley, presidente della Generalitat de Catalunya dal 1980 al 2003. Per questi vent’anni, Núñez e Pujol combatterono una guerra sotterranea riguardante lo status del Barcellona. Mentre Pujol vedeva il club come un’emanazione della società, e della politica catalana – d’altra parte importanti dirigenti blaugrana come Rosell e Montal erano membri fondatori del suo partito, Convergéncia Democrática de Catalunya – e faceva di tutto per legarne il nome e i colori al catalanismo, il presidente Núñez non amava le interferenze, specialmente da parte di uomini più potenti di lui e cercò sempre di mantenere la propria autonomia e di separare per quanto possibile sport e politica.

Il Barcellona e la politica catalana tornarono a dialogare intensamente solo nel 2003, con l’elezione a presidente di Joan Laporta, molto vicino a Crujiff e Rosell e storico avversario di Núñez. In seguito alle dimissioni di quest’ultimo, era diventato presidente Joan Gaspart, membro del Partido Popular (principale partito di destra spagnolo, apertamente anti-Catalanista, in cui erano confluiti gran parte dei gerarchi franchisti, tra i quali lo stesso Arias Navarro). Dopo un ventennio di neutralità ed un triennio del genere, Laporta diede una forte scossa decidendo di prendere posizioni forti e spesso controverse in favore della causa catalanista.

Ad esempio, il suo primo atto ufficiale fu una circolare in cui si chiedeva a tutti i membri del club di usare il catalano o l’inglese nelle comunicazioni ufficiali, sia scritte che verbali. Molti dei suoi collaboratori più stretti erano attivi in movimenti e partiti catalanisti e la dirigenza blaugrana non si faceva alcuna remora nell’esprimere le proprie opinioni in merito persino nei discorsi ufficiali: «il Club – dichiarò Laporta nel 2007 – continuerà ad essere uno strumento per la diffusione della cultura catalana.» Durante il suo mandato la maglia da gioco venne decorata con una piccola Senyera sulla parte posteriore e la società cominciò a promuovere iniziative catalaniste dentro e fuori dal Camp Nou.

Laporta e Messi con in mano la coppa della Liga 2010.
Laporta e Messi festeggiando la vittoria della Liga del 2010 (fonte: Archivo Marca)

Nel 2009 Laporta partecipò in via ufficiale alla Diada, la giornata nazionale della Catalogna, e nel suo discorso sottolineò l’importanza simbolica e identitaria della rivalità con il Real. Ma Joan Laporta non era stato eletto soltanto per fare politica e, di fatti, non si limitò a questo. Egli portò il Barcellona ad un livello mai conosciuto prima.

Sotto la sua presidenza, il Barça vinse ogni possibile competizione (quattro volte la Liga, una Coppa del Re, tre volte la Supercoppa di Spagna, tre volte la Champions League, due la Supercoppa UEFA e due la Coppa del mondo per club) rompendo ogni record e trasformandosi in una delle squadre più popolari al mondo. Incredibilmente, riuscì a farlo partendo da una solida base di grandi campioni nati in Catalogna (Victor Valdés, Carles Puyol, Gerard Piqué, Xavi Hernández, Bojan Krkić, Thiago Alcantara e Sergio Busquets) o cresciuti lì fin dall’adolescenza (Lionel Messi, Andrés Iniesta, Pedro Rodriguez). In questa squadra comunque, persino i calciatori stranieri erano obbligati a imparare il catalano, seguendo la regola introdotta da Gamper nel 1899.

In sette anni di presidenza, Laporta era riuscito a raggiungere vette nemmeno immaginabili una poco più di una decina di anni prima ed era riuscito a farlo mantenendo saldamente fede ai dettami di Hans Gamper, a quel marchio che un imprenditore svizzero innamorato di Barcellona aveva impresso per sempre sulla maglia blaugrana: «Fem esport, fem pàtria!», e si era persino spinto oltre, facendo del Barça il simbolo catalanista più famoso al mondo. Il Barça non era più soltanto un megafono, si era trasformato nel corpo diplomatico che l’inesistente governo catalano non può avere. In questi anni la squadra si è prestata a tournées mondiali, ha visitato capi di stato e promosso attivamente il catalanismo in tutto il globo.

Joan Laporta rinunciò al ruolo di presidente nel 2010 e si buttò in politica, fondando il partito nazionalista Democràcia Catalana, candidandosi alle elezioni regionali senza grandi successi. A lui seguì il suo delfino Sandro Rosell, il quale continuò sul cammino intrapreso rendendo il Barcellona «una pubblicità della Catalogna che corre e da calci a un pallone». Per esempio, concesse gratuitamente l’utilizzo del Camp Nou per ospitare il Concerto per la Libertà, una manifestazione organizzata per chiamare a raccolta il popolo catalano in vista del referendum consultivo sull’indipendenza dalla Spagna.

Nello stesso anno, commentando la Diada, affermò che «il club difenderà sempre le sue radici catalane e difenderà il diritto di autodeterminazione del popolo catalano!» Meno di un mese dopo, al Camp Nou andò in scena un clasico molto teso. All'inizio della partita i tifosi del Barcellona esposero una Estrelada – la versione indipendentista della Senyera – a ricoprire un’intero settore dello stadio e con l’assordante urlo «Independencia!» al minuto diciassette e quattordici secondi, a ricordare il 1714, data della perdita definitiva dell’indipendenza da parte della Catalogna.

Nella settimana precedente alla partita, José Mourinho e Pep Guardiola, alzarono i toni dello scontro. Già in precedenza i due si erano scambiati una lunga serie di frecciate, che erano andate a toccare anche il tema dell’indipendenza, su cui Guardiola si espresse con queste parole: «Il mio paese è la Catalogna e la Catalogna non è Spagna… e io ho giocato con la nazionale spagnola solo perché quella catalana non aveva diritto a partecipare alle competizioni internazionali.»

I tifosi del Barcellona espongono l'Estelada durante il Clasico del Camp Nou della stagione 2012/13.
L'accoglienza dei tifosi blaugrana al Real Madrid (fonte: Archivo Marca)

Guardiola lasciò Barcellona nel 2012 per spostarsi prima in Germania, al Bayern Monaco, poi in Inghilterra, al Manchester City. Ciononostante, Pep resta attualmente uno dei più visibili e influenti ambasciatori del catalanismo nel mondo, un perfetto esempio della nuova visione politica del Barcellona, del mutamento che questa avuto nel corso dell’ultimo secolo e dell’evoluzione del suo rapporto con i tifosi, la società e le istituzioni catalane. I nuovi tifosi, nati dopo la caduta di Franco, non hanno certamente lo stesso rapporto con il Barça che potevano avere i loro genitori o i loro nonni. Il Barça non è più la maschera da utilizzare per poter esprimere il dissenso verso una dittatura, ma uno strumento di promozione internazionale della cultura locale e delle sue istanze politiche.

Questo nuovo senso di identità rispecchia tanto la situazione del club quanto quella della società catalana nel suo complesso. Barcellona è una città internazionale, alla moda, la terza meta turistica in Europa e un hub tecnologico in rapida crescita ed il Barcellona Futbol Club ne è perfetto ambasciatore, il più potente strumento di soft power di un movimento indipendentista moderno ed europeo, certamente più influente di qualsiasi intellettuale, politico o diplomatico catalano. Il Barcellona è la società sportiva con il maggior numero di followers sui social media (oltre 260 milioni nel 2019) e con il maggior traffico sul proprio sito web, e da tutti questi canali diffonde sistematicamente il messaggio catalanista in tutto il mondo.

Al suo posto, Franco nominò il ben poco carismatico Carlos Arias Navarro, che non volle (o non seppe) opporsi alla transizione verso la democrazia. Nel frattempo, le condizioni del generalísimo continuavano a peggiorare ed il 20 novembre 1975 Francisco Franco morì. Il regime franchista si era ufficialmente concluso e da quel giorno sarebbe iniziato un triennio di limbo istituzionale, la transición, che avrebbe portato la Spagna a diventare la monarchia costituzionale che conosciamo oggi. Ovviamente la questione catalana proseguiva, finalmente libera di esprimere le proprie istanze e farlo nella propria lingua. Con essa, proseguiva l’impegno politico del Futbol Club Barcelona.


  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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