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, 26 Novembre 2019

Cosa aspettarsi da Harden e Westbrook


Narrativa e speranze di una delle trade con più hype dell'intera lega


Se l’approdo di Davis ai Lakers, Leonard che sceglie i Clippers e Durant ed Irving che si accasano a New York (sic!) sponda Nets, hanno certamente polarizzato l’attenzione di media ed appassionati, lo scambio imbastito da Sam Presti e Daryl Morey, rispettivamente GM di Thunder e Rockets, ha sicuramente avuto il merito di destare scalpore, o quantomeno distrarci da firme e controfirme varie nella folle estate NBA. Giusto per la cronaca, in cambio del prodotto di UCLA Oklahoma ha ricevuto Chris Paul, due scelte protette top 4 (2024, 2026) e due diritti di scambiarsi le scelte (2021, 2025), anche quest’ultime protette.

Qualcosa si era già capito quando Paul George aveva chiesto di essere ceduto, spingendo Russel ad una revisione dei suoi piani fino a considerare Oklahoma più o meno alla stregua di una ragazzina del liceo mai cresciuta veramente, non in grado di andare più in là di una semplice storia, per quanto passionale possa esser stata, mentre il californiano da tempo avrebbe voluto sposarsi e mettere su famiglia. D’altro canto, Presti, già intenzionato ad avviare un processo di ricostruzione, non poteva non assecondare le richieste di colui che in maglia Thunder ha rotto record e statistiche e rappresentato con il suo stile aggressivo e per nulla ponderato una città intera che, a maggior ragione dopo l’addio di Durant, lo ha eletto ad idolo e condottiero di un popolo minore, tale perché lontano dalle luci delle grandi metropoli e dalle grandi compagini della tradizione cestistica americana.

Buttando un occhio in Texas, di primo acchito quel che viene da pensare è che era difficile trovare un contratto peggiore di quello di Paul (Westbrook conta un contratto più lungo di CP3 ed una player option da 47 milioni nella stagione 2022-23). L’idea di Morey resta la stessa, ovvero l’all in per riportare il titolo a Houston. Importa poco se questa strategia intasi il cap e costringa la franchigia a pagare una cospicua luxury tax (monte ingaggi 2019 dei Rockets pari a 147 milioni), oltre a pregiudicarne il futuro nel medio-lungo periodo. La filosofia Morey è più simile ad un raccogliere stelle da mettere accanto ad Harden al fine di vincere il più in fretta possibile, a maggior ragione quest’anno che l’Ovest sembri non avere padroni (chiedere al Re e a Kawhi cosa ne pensino). Compatibilità e funzionalità sono problematiche che si valutano successivamente, a firme già avvenute. Con Paul le cose non erano andate male, anzi. Gli unici in grado di fermare la corsa al titolo degli uomini di D’Antoni sono stati i Warriors al massimo della loro integrità e potenzialità. Vero è che uno come Paul si sposa meglio con le caratteristiche del Barba, pur essendo un giocatore bisognoso di avere la palla in mano. Ma altrettanto vero è che a 34 anni l’ex Clippers appare nella fase discendente della sua parabola, soprattutto dopo una stagione di alti e bassi, oltre a voci maligne che parlano di problemi tra le due stelle. Considerazioni fatte probabilmente anche dalla dirigenza di Houston che, di conseguenza, ha deciso di puntare su un altro cavallo, non tanto per una questione anagrafica (Russel di candeline ne ha spente 31), e neanche per una questione di stats o indicatori di efficienza ed efficacia vari, ma piuttosto per un presunto patto tra James e Russel (“we know how to play together”), dal quale sarebbe partita tutta la trade, con Westbrook che fa presente a Presti di gradire più Houston che le altre contendenti.

Se il quinto posto a Ovest può non significar nulla, è comunque sorprendente vedere i Rockets con un record più che positivo (11 W – 6 L), considerati tutti i problemi di amalgama che gli si prospettavano, sia sul lato offensivo che difensivo. Per quanto riguarda il primo, c’è da dire che il gioco di D’Antoni si fonda essenzialmente sul famigerato Seven second or less  che si conclude perlopiù con un tiro da tre punti od una conclusione al ferro, rispettivamente i tiri (teoricamente) più remunerativi e quelli con una maggiore percentuale di realizzazione. Altra componente fondamentale dell’attacco dantoniano in salsa texana era l’isolamento, non per filosofia del coach, quanto piuttosto per caratteristiche delle star che, diciamo, non sempre erano inclini a dare alla palla il flusso richiesto dall’ex Olimpia Milano, ma più volentieri a rallentare il ritmo, giocare sul posizionamento dei compagni per creare vantaggio, risultando nella stagione ’17-18 i due giocatori più produttivi da situazioni di isolamento. Nella stagione ’18-19, se Harden è rimasto eccellente in questo tipo di situazioni, lo stesso non si può dire per CP3 che è crollato a 0,88 punti per possesso (l’anno precedente ne produceva 1,15). Dato che, unitamente alla sconfitta contro Golden State senza Durant negli scorsi play off, ha portato il coaching staff di Houston a ragionare su un’alternativa che non fossero gli isolamenti. Anche perché sennò non si spiega l’ingaggio di Westbrook che, statisticamente parlando, è uno dei peggiori giocatori del circuito in situazioni di ISO.

Buona parte delle speranze di successo dei Rockets passano dal ruolo che avrà James Harden in attacco, soprattutto dal suo gioco off the ball, dalla sua capacità di ritornare ad essere più una shooting guard e meno portatore primario, lasciando questo compito all’altro amico di scorribande, anche se a giudicare da questo primo scorcio di stagione ciò non si è veramente realizzato. The Beard sta mantenendo fino ad ora numeri irreali per quanto riguarda i punti realizzati (37,9 ad ogni allacciata di scarpe) ed è tra i primi tre giocatori per efficiency (secondo tra le guardie, primo Doncic…), mentre il principale compagno di merenda è trentunesimo (importante precisare che l’indicatore è fortemente condizionato dallo stile di gioco della squadra). Le percentuali dal campo di entrambi non sono brillantissime per usare un eufemismo, con Westbrook che anche quest’anno si dimostra un pessimo tiratore da tre punti. Il sistema Rockets ad ora non sta risentendo delle mancanze del numero 0, ma è anche vero che il calendario è stato dalla parte dei texani, che li ha visti affrontare come squadre di livello solo Clippers, Bucks e Trail Blazers. Inoltre, altro fattore decisivo sarà il rientro di Gordon, pedina fondamentale nello scacchiere dantoniano, utilissimo per dare respiro ai due ed imprescindibile bocca di fuoco per sperare nell’anello.

Nella metà campo difensiva le cose sono un attimo più complicate, con Houston che concede 115 punti a partita. Sull’impegno e sulla costanza delle due star in difesa si giocano realmente le chances di titolo dei texani, considerando la perdita di Paul (uno dei migliori in difesa nel suo ruolo, almeno in teoria) e le noie fisiche che debilitano Capela. I due ex Thunder sulla carta sarebbero buoni difensori: Westbrook per fisico ed atletismo potrebbe tranquillamente tenere su tutti i pari ruolo e anche su alcune ali piccole, e Harden è un difensore sottovalutato (sempre sulla carta), utilissimo nei cambi più che sull’uomo. Inoltre, entrambi sono fra i migliori per quel che riguarda le palle rubate (1,6 a partita), ma l’altra faccia della medaglia di questo dato è che tutte le volte che uno dei due si getta sulla linea di passaggio e manca la deviazione o la rubata, è probabile che lasci i compagni nel baratro del dover affrontare un 4vs5, non proprio la situazione ideale. Oltre al già citato Capela, sarà fondamentale l’apporto di difensori perimetrali come Gerald Green, così come l’ingresso dalla panchina del veterano Tyson Chandler per dare respiro al buon Clint. Quel che sembra mancare è un difensore di professione nel reparto esterni, pedina fondamentale soprattutto in fase di playoff, dove probabilmente si darà spazio ad un quintetto piccolo con in campo contemporaneamente Harden, Westbrook e Gordon, non proprio il non plus ultra della difesa.

È evidente che per coach Mike D’Antoni e per il suo staff il lavoro non manchi, soprattutto sul lato difensivo dove c’è da mascherare l’indolenza di Harden ed inserire Westbrook in un sistema sicuramente oliato, ma anche molto fragile. Ed anche in attacco ci sono cose da sistemare, ravvivare una fase offensiva a tratti monocorde, dargli quell’imprevedibilità che è sembrata il tallone d’Achille di Houston, soprattutto nella passata stagione.

Se le due star, entrambe all’alba dei trent’anni, dovessero decidere di sacrificare ego e statistiche personali per il bene della squadra, l’obiettivo vittoria per Houston potrebbe essere un po’ più vicino. Di sicuro l’azzardo di Morey è uno di quelli da win or go home (quasi letteralmente per il GM) e di sicuro quest’anno la corsa al titolo è più aperta che mai. In pochissimi, per un motivo o per un altro, scommetterebbero sui Rockets, ma noi siamo più che pronti a farci stupire da questo folle duo californiano.

Fonti:

https://it.global.nba.com/statistics

overtimebasket.com


  • Nato a Caltanissetta, classe ’94. Laureato in Economia Aziendale con un’ambiziosa ed utopistica tesi su una proposta d’introduzione del salary cap nel calcio europeo. Attualmente studente magistrale in Strategia, Management e Controllo. Nel frattempo, prova a scrivere di calcio e pallacanestro, visto che di pennellare come van Hooijdonk e tirare come Klay Thompson non se ne parla proprio. Sogna una conversazione a tavolino con Sarri, Bielsa e Popovich, meglio se accompagnata da una bottiglia di buon vino.

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