Uno, cento, mille, Klopp!
“Se un uomo non intende correre qualche rischio
per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla
o non vale niente lui.”
Ezra Pound
“Se non vinco un titolo entro quattro anni, vado ad allenare in Svizzera.” Queste le parole di presentazione di Jurgen Klopp a Liverpool, oltre al più celeberrimo “I’m the Normal One” . Fortunatamente ha vinto, ma alla stessa maniera tramite la quale ha collezionato anche sconfitte e delusioni, partendo da Mainz fino ad arrivare sulle rive del fiume Mersey.
Origini del mito
Quando si tenta di narrare la storia di un personaggio, è forte la tendenza alla ricerca di un momento epico o di una sliding doors che contrassegni in modo marcato l’inizio di un’epopea, così come di una débâcle. Anche per il buon Jurgen da Stoccarda è possibile trovarne uno: il suo risale al 28 febbraio 2001, quando la dirigenza del Mainz gli affida temporaneamente la guida della prima squadra, in lotta per non retrocedere in terza divisione. Fino a qualche giorno prima era semplicemente un medio giocatore di 2.Bundesliga, come lui stesso si è definito, il più amato dai tifosi, militante nella squadra di Magonza dal 1990. Nello stupore generale porta i compagni a vincere sei dei sette match successivi e a fine stagione arriva l’agognata salvezza. È l’inizio di una serendipica avventura, durante la quale il Mainz otterrà la sua prima promozione in Bundesliga e da matricola arriverà undicesimo, permettendosi anche una comparsata in Coppa UEFA, grazie alla vecchia regola del “Premio Fair Play”. Un bellissimo aneddoto, raccontato dallo stesso Klopp in un’intervista, permette di comprendere che razza di psicologo sia l’allenatore di Stoccarda e quanto creda che il lato umano vada curato tanto quanto quello tecnico: "Portammo la squadra su un lago in Svezia, dove non c’era energia elettrica. Andammo lì per cinque giorni, senza cibo. Dovevamo pescarcelo. Gli altri preparatori dicevano: “ma non sarebbe meglio allenarci a giocare a calcio?”. No. Volevo che la squadra sentisse di poter sopravvivere a qualsiasi cosa. Il mio vice pensava che fossi un idiota. […] Ogni notte in una cazzo di tenda, con le radici sotto la schiena mentre dormi: sono cose che non dimentichi. […] Ma è stato fantastico. Arrivammo in Bundesliga e tutti trovavano incredibile quanto fossimo forti."
Nella stagione 2006-2007, i biancorossi retrocedono in seconda divisione a causa di un tracollo nella seconda parte del campionato e l’anno successivo mancano la promozione. Di questa splendida esperienza, al giovane Jurgen restano il prestigio di aver dato un posto al Mainz sulla mappa del pallone teutonico e l’aver mostrato un gioco elettrico e spumeggiante, fatto di verticalità e pressing esasperato, come mai si era visto in Germania, oltre all’amore sconfinato di tutta la città. Proprio a Magonza inizia la collaborazione con due personaggi che si porterà dietro per tutta la carriera, che rispondono ai nomi di Zeljko Buvac, detto “la mente” ed esperto di tattica, e Peter Krawietz (“l’occhio”), video analyst e suo testimone di nozze. Amici prima che collaboratori, alfieri razionali di un secchione un po’matto come Klopp.
A sinistra di Klopp "la mente". Alla sua destra "l'occhio".
Sotto il muro giallo-nero
Ad ingaggiare l’uomo nuovo della Germania pallonara è il Borussia Dortmund che, dopo i lucenti fasti degli anni ’90, si ritrova ad essere una squadra di metà classifica, in seguito una crisi finanziaria che, oltre ad averne messo a rischio l’esistenza, ne ha ridotto drasticamente possibilità ed ambizioni. Fotografia che immortala come meglio non si potrebbe l’eccitante e goliardica gestione Klopp è il suo primo derby con lo Schalke 04: si gioca al Westfalenstadion e il Dortmund dopo un’ ora di partita è sotto tre a zero, rischiando anche di prendere il quarto. Più tardi racconterà che in quel momento pensò a sua moglie, "sperando che sapesse dov’erano le valigie perché forse ci saremmo dovuti trasferire ancora!". La partita terminerà 3-3 in un tripudio giallo-nero ed egli dirà che quella rimonta fu fondamentale per la continuazione della sua avventura al Borussia.
Danke.
Arrivano i primi trofei, tra cui due Bundesliga, e la finale di Champions persa a Wembley contro il nemico di sempre, il Bayern Monaco, che lui stesso ha definito come “una superpotenza spietata”, simile alla Cina, troppo superiore sia sul piano politico che economico. È d’altronde non è facile ricominciare ogni anno perdendo i pezzi i migliori, soprattutto quando si è alzata l’asticella. Negli anni hanno fatto le valigie Kagawa, Sahin, Gotze, Lewandowski, giusto per citarne alcuni. Ma Jurgen ha sempre accettato gli eventi avversi, se n’è fatto una ragione, conscio che ogni giocatore che andava via gli strappava un pezzettino di cuore. È uno degli ultimi romantici del pallone, ma non un ingenuo disilluso. Sa come vanno le cose, ma ha comunque bisogno del suo tempo per metabolizzare il dolore. Appartiene ad una razza in via di estinzione: quelli che non riescono a lavorare senza amore.
Nell’aprile del 2015 comunica l’addio, asserendo di non essere più "l’allenatore perfetto" per il Borussia Dortmund, ma non spiegandone le motivazioni. La stagione che da lì a poco si sarebbe conclusa passa tra alti e bassi, con momento più iconico l’inizio di dicembre, che vede i giallo-neri primi nel girone di Champions ed ultimi in campionato, con una fase difensiva imbarazzante, la peggiore mai vista nella gestione Klopp. Va via conscio di essere stato uno dei principali artefici di un modello esaltato ed invidiato, di aver generato emozioni, di essersi innamorato e di aver fatto innamorare, creato legami con giocatori, società e città e di aver vinto attraverso il gioco e le idee. Non si poteva chiedere di più.
Reds
Quando tutto lascerebbe pensare ad un anno sabatico, nell’ottobre del 2015 arriva la chiamata del Liverpool che, dopo un deludente inizio di stagione, scarica Rodgers ed ingaggia il “Normal One”. I Reds sembrano non solo bisognosi di una guida tecnica di alto livello, ma soprattutto di una figura carismatica che dia vigore ed entusiasmo ad un ambiente un po’ intristito e che riempia, per quanto possibile, il vuoto di leadership lasciato da Steven Gerrard.
Se gli unici prestigiosissimi trofei sono arrivati quest’anno, guai a dire che i tifosi, e gli appassionati in generale, non si siano divertiti sin da subito a guardare le partite degli uomini di Klopp, come un folle 3-3 con l’Arsenal, un’adrenalinica vittoria 4-5 in casa del Norwich o lo straordinario ritorno dei quarti di finale di Europa League contro il Borussia. L’heavy metal si intravede, ma sono sprazzi, lampi, possono durare settanta minuti o un quarto d’ora. Non c’è nessuna garanzia che la rivoluzione si compia. I progressi tattici però si vedono, mese dopo mese, stagione dopo stagione. Vengono aggiunti pezzi, anche sin troppo costosi, pur di dare a Klopp tutto il necessario per metterlo in condizione di poter puntare alla vittoria.
Il Liverpool di Klopp è diventato una macchina da guerra.
Deo gratias è arrivata la Champions a marchiare col fuoco la carriera di uno dei tecnici più preparati ed elettrizzanti che ci siano in circolazione (tra l’altro con una finale vinta in modo tutt’altro che alla Klopp), in risposta al morboso e desolante bisogno di vincere per decretare l’eccellenza di un percorso, di un allenatore, di un calciatore. Bisogno generato dal circo mediatico che oramai irrimediabilmente contorna il pallone, che non aiuta invece a comprendere, tra l’altro, come il confine tra vittoria e sconfitta, a maggior ragione negli sport di squadra, sia labile, esile, a volte poco più di una casualità o di una coincidenza.
“Dopo l’esperienza a Liverpool farò sicuramente un anno di pausa, è una promessa che ho fatto alla mia famiglia. Ma ad oggi non è nemmeno escluso che, a quel punto, io saluti tutti e smetta di allenare.”
Tutti gli appassionati si augurano di no. Non solo perché veder giocare le squadre di questo bizzarro allenatore tedesco (che tedesco non sembra) è uno spettacolo unico ed inimitabile, ma soprattutto perché il calcio ha bisogno di personaggi come lui, sinceri e genuini, onesti nei loro difetti, disposti a sbagliare e a chiedere scusa, ancora in grado di emozionarsi e di incazzarsi come un qualsiasi altro appassionato. Avremmo bisogno di cento, mille Klopp.
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