allegri
29 Aprile 2019
13 minuti

Allegri e la sua lotta di resistenza


Mai come in coda a questo Inter-Juve si è avvertita con nitidezza, rispetto al calcio nostrano, la sensazione di un ormai avvenuto ribaltamento dell’ordine delle cose. Come se non siano più gli studi televisivi, le analisi e le elucubrazioni che ne derivano ad essere allestiti a corredo e in funzione della partita, ma ormai siano le partite ad essere in funzione del resto, configurandosi come l’inevitabile prologo allo spettacolo vero e proprio. Come se le partite servano essenzialmente a giustificarlo e a tenerlo in piedi. Per alimentare tutta l’alluvione di parole, di tweet, di commenti, e poi di commenti ai commenti, e così via, in modo pervasivo e capillare, ognuno con i suoi mezzi e con i suoi spazi a disposizione. Tanto, in assenza di mezzi e spazi, ci sono pur sempre i social a fare in modo che tutti, davvero tutti possano partecipare.


In coda ad una partita non certo densa di significati (tra l‘altro andata in onda su un altro canale) e non a caso finita con un salomonico pareggio, si attendeva il fatidico momento. Allegri ed Adani: come sarebbe andata a finire stavolta? L’attesa si dilatava placidamente, mentre il Lele Adani in questione conversava con Spalletti Luciano che era già stato giudicato, in quello stesso studio, meritevole di riconferma. Tutto procedeva secondo copione, tutto andava bene, tutti erano d’accordo e tutti erano belli, come in una perfetta trama cinematografica che vuole creare i presupposti per il colpo di scena. Perché poi arriva Allegri, man mano prende forma la suspense, e succede quello che deve succedere. Poi Allegri se ne va, e tutto ritorna placido, tranquillo e persino bello, con Adani che ci tiene a far sapere che (testuali parole) “è un finale di campionato da accompagnare con entusiasmo, perché ci sono tante belle partite…”. Come no? C’è questo Allegri che è un pirla, ma la serie A è bellissima. Ci sono un mucchio di belle partite in questo finale. Fa niente che quasi nessuna di essa abbia senso, tranne quelle che coinvolgono le squadre in lotta per un posto Champions. E ad occhio e croce, con tutto il rispetto e l’ammirazione che almeno si devono all’Atalanta, mi pare difficile poterle accompagnare con entusiasmo. Io, per esempio, trovo desolante ciò che viene espresso sui campi della nostra Serie A, nella stragrande maggioranza delle partite, dal punto di vista tecnico, estetico e purtroppo anche culturale. Sarà senz’altro un problema mio. Fa niente. In fondo sono opinioni, e poi, si sa, il concetto di bellezza è relativo. Chissà perché, però, in tutta questa bellezza, in questo straripante entusiasmo, ad Adani proprio questo Allegri non riesca ad andar giù.

Max versus Lele.

Il fatto è che Massimiliano Allegri è essenzialmente un ribelle. A lui che le partite possano diventare l’inevitabile prologo ad un mare di chiacchiere in cui poter annegare proprio non va giù. A lui non glie sta bene che no. E allora prova a difendere non sé stesso, ma la sua idea e il suo punto di vista rispetto ad un gioco che ama anche più dei cavalli. Pur sapendo che si tratta di una battaglia di resistenza, da combattere con la consapevolezza di stare in una posizione di minoranza. Ecco, anche quella passione per i cavalli e per l’ippica, retaggio di un tempo che fu, testimonia e disegna un altro particolare aspetto della sua identità. Il livornese è fuori moda, non solo fuori dagli schemi. E allora, preso in questo suo anelito di ribellione, a volte gli capita di risultare persino irridente e di esagerare un po’ nelle sue provocazioni concettuali. Per provare a colpire nel segno, per portare al suo punto estremo il proprio spirito e la propria ansia di ribellione. Eppure, per esempio, riferendosi alla magnifica Olanda degli anni ’70, prima della partita con l’Ajax, in un'intervista al Corriere aveva detto: “L’Olanda è l’esempio di un sistema in cui sono stati costruiti per molti anni giocatori singoli molto bravi, poi che non abbiano vinto è un altro discorso. Il calcio olandese era un calcio totale perché tutti sapevano giocare in tutte le zone del campo…singoli talenti all’interno di un sistema che insegna ai ragazzi a giocare a calcio, che non li meccanizza.” Perché per lui il modello del calcio totale non è nato e non si è sviluppato sottoponendo i giovani olandesi ad un lavaggio del cervello e infilandogli una serie di teorie nella testa, ma innanzitutto insegnando loro a giocare a calcio. La capacità di interpretare un determinato sistema e modello di gioco rappresenta così una conseguenza, non la causa della bravura e del talento di chi lo interpreta. Perché a riempire la testa di teorie e di chiacchiere, si rischia di creare “polli di allevamento”. Invece bisogna rendere i ragazzi consapevoli del proprio talento, incoraggiandoli a non disdegnare la creatività che può aiutarli ad adoperarlo. Lui la pensa così.

Quando uno come Allegri perde, finisce per trovarsi in una posizione particolarmente difficile. Ti trovi piuttosto solo e quegli altri provano a tirarti tutto indietro, magari anche con gli interessi. Ora, le diatribe personali interessano il giusto e interessa ancor di meno approfondire la cronologia e la saga degli scazzi tra l’uno e l’altro. Provando ad andare alla sostanza delle cose, conviene piuttosto approfondire la materia del contendere. Circa due settimane fa, in contumacia di Allegri, in un altro studio, Adani aveva portato il suo attacco frontale, suscitando una prevedibile ondata di favore popolare.

Davvero in queste parole c’è il reale senso delle cose? La Juve ha come unico piano di gioco la ricerca della palla alta su Mandzukic e non ha neanche un piano B?  Potrà mai essere stato così che questa stessa squadra ha dominato in casa del Valencia, con lo United sia Manchester che a Torino? E poi, venendo a tempi ancora più vicini, ci siamo già dimenticati di quello che abbiamo visto nel ritorno con l’Atletico Madrid? Lele ha la risposta pronta: “eh, ma lì ci fu Ronaldo a prendere in mano la squadra”. Ma come? Ti produci in questo immane sforzo dottrinario per dimostrare che Allegri quella fatidica sera aveva torto e tu avevi ragione, ché ”sono le idee a mettere in condizione gli uomini di vincere le partite”, ma se poi l’esito di una partita non ti conviene, mi dici che in quel caso è stato Ronaldo?

Fa, invece, effettivamente presa quell’altra parte del suo discorso. Quel suo paradosso. Quando dice: “loro hanno Tadic, la Juve ha Ronaldo. Allora, se le partite le vincono i calciatori, chiamate Paratici e chiedetegli perché ha comprato Ronaldo e non Tadic.” In effetti Tadic è sempre stato un giocatore di talento, personalmente stravedevo per lui ai tempi del Southampton, ma è innegabile che è il sistema dell’Ajax ad averlo reso più incisivo di quanto potevamo mai immaginarci. Davvero ciò può bastare per poter catalogare Allegri come un bollito, che sabota le progressive e magnifiche sorti della Juventus con la sua inadeguatezza e la sua inefficienza?

Se non la miglior prestazione di un singolo in questo 2019, poco ci manca.

A guardare indietro, tornando a quando le cose su quella panchina sono cominciate per il livornese, si potrebbe chiedere ad Adani cosa avrebbero dovuto chiedere ad Ancelotti e a Florentino Perez quando, 4 anni fa, Ronaldo era dall’altra parte e il Real perdeva allo Stadium, con una memorabile prestazione, tra gli altri, di Sturaro. E la settimana successiva una rete di Morata eliminava le merengues e mandava i bianconeri in finale: “perché non avrete comprato Sturaro invece che uno tra Kroos e Modric? Perché non vi siete tenuti Morata e non vi siete liberati di Benzema?”. Non so se qualcuno glielo chiese, fatto sta che quelli del Real incassarono, portarono a casa, Morata se lo ripresero ma lo diedero via comunque l’anno dopo e, dopo la fugace esperienza di Benitez, misero sulla panchina un tale che si chiama Zidane, che non aveva ancora mai allenato una prima squadra. Vinsero tutte e tre le successive edizioni della Champions. Semplicemente piazzando a centrocampo un equilibratore come Casemiro a sostegno dei loro straordinari talenti.

La sua squadra “Acciughina” l’aveva presa a luglio inoltrato, quando Conte se n’era andato sbattendo la porta “perché non si può mangiare con 10 euro in un ristorante da 100”.  Era proprio quella squadra lì. Poi sono piovuti investimenti, sempre peraltro parallelamente a cessioni e anche grazie agli introiti provenienti dai risultati nelle competizioni europee. Era un genio allora Allegri e ora, dopo 4 anni, le sue idee e lui stesso sono ormai superati dal tempo? Può darsi. Per esempio, a sentire Patrice Evra, pare che allora la squadra non avesse solo il piano di buttare la palla verso la testa di Mandzukic.

Allegri ha dimostrato di possedere qualità indiscutibili nel guidare la sua squadra, portandola a livelli difficilmente immaginabili prima che egli si sedesse su quella panchina. Lo ha fatto essendo sé stesso, a modo suo. Con le sue qualità, la sua diversità. La Champions continua a rappresentare un miraggio, è vero. Occorre sottolineare che, dopo la finale persa dalla Juve a Berlino con il Barça, quella Coppa è rimasta un miraggio per tutte le squadre che non erano il Real Madrid. Ogni anno se non la vince viene considerato un fallimento, ma ogni anno lo stesso obiettivo ce l’hanno il Real, il Barcellona, il Psg, il City, il Liverpool, il Bayern Monaco. Per dire solo le più importanti. Lo so, è quello che dice anche lui, ma davvero possiamo dargli torto? Credo proprio di no, malgrado ciò non impedisca di riconoscere e di ritenere con convinzione che ad Allegri e alla Juve sia lecito chiedere molto di più. Soprattutto molto di più di ciò che sono riusciti a fare quest’anno e, in parte, anche l’anno scorso.

Per fare meglio, però, al livornese non può essere richiesto né di imitare Guardiola, né di diventare Pochettino. Qualche voce autorevole si è spinta a sostenere che il segreto del calcio del futuro possa risiedere nell’abiurare la cura tattica posta nella famigerata “ricerca dell’equilibrio”, perché nel fantasmagorico 4-3 del City al Tottenham costoro hanno trovato l’esaltazione di questo principio. Certo, di equilibrio in quella partita ce n’è stato davvero poco, così come di razionalità. Una grandinata di emozioni capaci di incarnare il puro fascino del dionisiaco, giocate incantevoli peraltro incoraggiate da interpretazioni difensive piuttosto accondiscendenti. Allora, se dall’ assenza di equilibrio vengono fuori partite così esaltanti, forse l’equilibrio non serve? Non so. Probabilmente, se avesse dimostrato maggiore equilibrio, specie dopo aver segnato il bellissimo gol dell’1 a 0 con Sterling, il City avrebbe passato il turno. E, dall’altra parte, 3 anni fa Pochettino adottava gli stessi principi di gioco e li perseguiva con la stessa convinzione. Il Leicester, invece, stava lì a preoccuparsi dell’equilibrio, magari sbagliando, chi può dirlo? I londinesi ebbero poco equilibrio anche l’anno scorso, quando uscirono per mano della Juventus, dopo che la partita prese a girare proprio a seguito di una delle fatidiche allegrate. Doppio cambio al 60’, un terzino destro (Lichtsteiner) per un centrale di difesa (Benatia) e un terzino sinistro (Asamoah) per un interno di centrocampo adattato sull’esterno (Matuidi). Poi, dopo l’1 a 1, squadra avversaria squilibrata nella virtuosa ricerca del pressing alto e Dybala che può filare indisturbato verso la porta, su assist di Higuain. Siamo sempre lì, se hai prerogative e priorità decisamente opposte alla ricerca dell’equilibrio tattico, hai calciatori che sanno fare ciò che fanno dannatamente bene, e magari ti va anche di culo, può anche essere che ti funzioni alla grande. Ciò non toglie che può andarti alla grande pure se ti orienti nella direzione esattamente contraria. La premessa irrinunciabile rimane sempre che i calciatori riescano a farlo dannatamente bene (una cosa o l’altra) e che poi comunque ti vada anche un po’ di culo, in ogni caso. Quello che è certo è che non puoi chiedere ad Allegri di seguire la prima strada. Significherebbe chiedergli di rinunciare alla propria identità, di rinnegare se stesso. Gli si può chiedere di organizzare con più continuità la pressione sugli avversari in zone più avanzate del campo, e di farlo in modo più sistemico, ma non gli si può chiedere di dimenticarsi dell’equilibrio. A quel punto, se davvero si vuole seguire questa strada, conviene cercarsi un altro allenatore, come ormai spasmodicamente invocano una sempre più larga parte dei tifosi bianconeri.

Se invece si vuole continuare con Allegri, bisogna innanzitutto tener presente che alla maggioranza dei tifosi e dei commentatori egli non piace. D’altronde sarebbe strano il contrario, identificandosi la sua battaglia appunto come una battaglia di resistenza e di minoranza. La maggioranza è dall’altra parte. Volendo fare una valutazione puramente aziendale, di marketing, dunque orientata al mercato e non al prodotto, la sorte del livornese sarebbe davvero segnata. Significherebbe senza dubbio farsi condizionare dagli umori e dalle pressioni esterne, ma ragionare in modo orientato al mercato vuol dire esattamente questo. Se il mercato non vuole Allegri, noi non possiamo dargli Allegri. Altrimenti bisogna essere pronti ad affrontare le forche caudine predisposte preventivamente dalla critica e dai tuoi stessi tifosi ad ogni mezzo passo falso. La Juve è pronta e disponibile a questo, ed Allegri stesso ha ancora la forza e la voglia di sopportarlo e affrontarlo? I recenti eventi, non ultimo l’episodio dell’altra sera, rendono lecito il dubbio.

Se la risposta fosse affermativa e Allegri fosse confermato su quella panchina, è indubbio che vada chiesto di più a lui, ma non solo a lui. Innanzitutto c’è da leggere meglio alcune preoccupanti avvisaglie riguardo al mantenimento e alla preservazione della condizione atletica e fisica della squadra. Alcuni infortuni sono stati traumatici, altre indisponibilità casuali, ma nel corso delle ultime stagioni troppe e diverse defezioni si sono verificate nei momenti chiave. Indice forse di usura in un gruppo non più certo (complessivamente) giovanissimo e che ha tirato la carretta per diverse e lunghe stagioni? Può darsi.

Dopodiché, finalmente, arriviamo al nodo di tutta la questione. Il punto è che Max, per migliorare, dovrebbe cominciare proprio dal fidarsi un po’ meno delle sue capacità. È stato grazie ad esse se, finora, aveva finito ogni volta per sfangarla, in qualche modo. Anche quando le aporie e i problemi venivano minacciosamente a galla, anzi soprattutto in quei momenti, è venuto fuori il suo essere speciale, la sua spiccata intelligenza creativa. Dalle macerie della sconfitta di Sassuolo nel suo secondo anno, attraversando poi, qualche mese dopo, lo straordinario, inatteso e sfortunato ottavo di finale di Monaco di Baviera, contro Guardiola. L’anno successivo il motore della squadra picchiava in testa e lui s’inventò Mandzukic all’ala e Dybala dietro ad Higuain, con la coppia Pjanic e Khedira in mezzo al campo. Per arrivare fino a Cardiff e a quel fragoroso e improvviso crollo nel secondo tempo. E poi a Londra l’anno scorso, nel già citato ritorno con il Tottenham. E a Madrid, dopo lo 0 a 3 casalingo. Per ultimo nel ritorno contro l’Atletico, quest’anno.

Il problema è che non si può sempre confidare nell’invenzione del momento, nell'ispirazione creativa, nella soluzione estemporanea che ti svolta tutto, certi che tanto prima o poi essa venga fuori. Non si può affidare solo a questo lui e non ci si possono affidare neanche Andrea Agnelli, Paratici, Nedved e la società tutta. Perché qui arriviamo al vero convitato di pietra di tutta questa vicenda. Loro, la società. Perché va bene che conviene così; è più comodo e in molti non vedevano l’ora che il colpevole fosse il maggiordomo, ma la realtà delle cose è ben più complessa. E non basta comprare Cristiano Ronaldo per eludere ogni problema e ogni complessità. Perché se, poi, sono passati quattro anni da quando non hai più Vidal e Pirlo, e tre anni da quando non hai nemmeno Pogba e, per il centrocampo della tua squadra che "deve assolutamente vincere la Champions", pretendi ancora di volerti affidare a Khedira, ormai palesemente al crepuscolo della sua carriera, o a Matuidi che è un lottatore e un corridore eccezionale, ma in quanto a spessore tecnico non c’entra davvero nulla con i suoi predecessori sopracitati, allora qualche problema rimane. Non basta Emre Can. E non certo puoi pensare di risolvere la questione con Bentancur, per quanto egli piaccia così tanto al nostro Lele Adani. E di problema ne rimane anche un altro se, in un momento decisivo della stagione, ti trovi a dover sostituire una colonna come Chiellini, e come unica alternativa a Rugani hai ancora Barzagli (appena rientrato in gruppo).

Rugani su cui la Juventus sembra ancora crederci incondizionatamente.

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Vi è, poi, proprio una questione di fondo. Va bene Ronaldo, vanno bene le stringenti necessità di bilancio, ma costruire una squadra vincente e pretendere che essa abbia un’identità e una fisionomia precise e riconoscibili, significa necessariamente che questa identità e questa fisionomia bisogna progettarle e programmarle. Non può significare “noi intanto compriamo quello che possiamo comprare, tanto poi alla fine ci pensa Allegri a sistemare tutto e a dare un senso alle cose”. Sono anni, ormai, che la Juve non finisce la stagione così come l’aveva cominciata, perché Acciughina, ad un certo punto, deve inventarsi in qualche modo una pezza, una scappatoia. Quest’anno, per esempio, su quale base avevano pensato di edificare la stagione? Sul 4-2-3-1 schierato nella prima partita di campionato contro il Chievo, con Ronaldo centravanti? Sì, no, forse. E se no (opzione che ritengo la maggiormente probabile), allora come? Se sì (molto poco probabile) perché si è cambiato idea così completamente e repentinamente?

La flessibilità va benissimo, sfruttare l’estro e la specificità di Allegri anche, ma ad un livello così alto diventa impossibile prescindere da un’identità, da alcune certezze tecniche e tattiche perlomeno di base. Bisogna andare, dunque, a prendere giocatori rispondenti proprio a quest’idea di base. Per carità, pur senza disdegnare di avere in rosa qualcuno che, all’occorrenza, ti dia la possibilità di derogare ad essa o, in base a specifiche esigenze, di poterla modificarla, di evolversi. Deve capirlo la società. E deve capirlo anche Allegri. A giudicare da quanto ha scritto nel suo libro, non dovrebbe risultargli difficile, visto che individua tra le 32 regole snocciolate in quella sede, la regola 19: più alto è il livello di compiacenza, più bassa è la possibilità di vincere. Ecco forse il suo errore è consistito proprio nell’aver cominciato a compiacersi troppo. Continuare su questa strada sarebbe deleterio soprattutto per lui. Lo esporrebbe al rischio di conservare agli archivi tutto ciò che di buono è stato capace di compiere e realizzare finora, per condannarlo ad un inesorabile declino. Proprio come vorrebbero i suoi detrattori. Ed è un rischio che va assolutamente scongiurato, perché indipendentemente da come vada a finire con la Juventus, io ad uno come Allegri, in questo calcio e questo momento storico, non vorrei proprio rinunciare. Non vorrei proprio rinunciare alla sua diversità, alla sua alterità. La sua è una lotta per la resistenza, per difendere non se stesso, ma il suo modo di intendere, di concepire e di vivere quel gioco che lui ama. Mentre il tempo e gli altri vorrebbero andare in un'altra direzione. C’è bisogno di uno come lui, di uno che non glie sta bene che no. Su qualsiasi panchina sia e, possibilmente, su una panchina italiana.


  • Raffaele Cirillo, classe 1981, di Paestum. Fantasista di piede mancino, ma solo fino a 17 anni, rigorosamente un passo prima del professionismo. Iniziato al calcio dal pirotecnico Ezio Capuano nel settore giovanile dell’Heraion, che poi gli ispirerà anche un libro, un romanzo sul calcio intitolato "Il mondo di Eziolino". Con la stessa disposizione d’animo e la medesima aspirazione creativa con cui si disimpegnava in campo, ora il calcio lo guarda, lo interpreta e ne scrive.

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