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19 Aprile 2019

Ancelotti: preferire la coppa non basta


Nel grigiore e nella malcelata depressione in cui era immersa la sala stampa del San Paolo ieri sera, ad un certo punto si è rischiato pericolosamente di evocare inquietanti fantasmi. È accaduto nel preciso momento in cui Ancelotti non ha potuto resistere alla tentazione di richiamare l’annoso problema del “fatturato”, che un po’ somiglia anche al třaffico per quell’avvocato siciliano nel film Johnny Stecchino: la terribile piaga che diffama la Sicilia agli occhi del mondo.


Momento che è proseguito, nell’inquietudine che lo contraddistingueva, quando l’allenatore italiano più vincente in Europa ha rievocato la Storia della squadra che lui allena dall’estate scorsa, per ricordare a tutti che il Napoli, in fondo, non ha certo una lunga e luminosa tradizione di vittorie europee. Ecco, proprio in quel preciso momento, nel grigiore della sala stampa del San Paolo pareva inverarsi il risaputo e abusato adagio proveniente dalle pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, portandosi dietro il tremendo sospetto che pure nel Napoli alla fine “si cambi tutto, affinché tutto resti come prima”.

L'intera conferenza stampa post eliminazione.

Non è che non sia vero, neanche che ci sia da contestare il peso del fatturato nel calcio contemporaneo, e non si vuole nemmeno sminuire il peso della tradizione. Quello che colpisce e deprime anche abbastanza è quanto e come certe parole, determinati concetti, risuonino sinistramente già sentiti. E non solo da Sarri, come risulta notorio al punto che non serve neanche rievocarlo, ma pure da colui che c’era prima. Sicché, non che Ancelotti abbia torto, così come non ce l’aveva Sarri e prima ancora non ce l’aveva Benitez. Piuttosto, allora, sulla panchina del Napoli Ancelotti cosa è venuto a farci? Domanda che, per quanto possa sembrare sbrigativa, irrispettosa e anche semplicistica, assume ancora maggiore consistenza proprio in relazione a ciò che Carletto ha detto dopo aver svilito la tradizione della squadra che allena. In sintesi, fatte queste premesse, anche lui non ha potuto certo esimersi dal concordare sul punto che “l’obiettivo è cercare di migliorare”. E allora, caro Carletto, giunti a questo punto della stagione non risulta più nemmeno arduo, risulta obiettivamente grottesco sostenere che la guida Ancelotti abbia migliorato il Napoli. Davvero vogliamo far credere che aver fatto un po’ di strada in più in Europa League, eliminando peraltro nientemeno che lo Zurigo e il Red Bull Salisburgo, possa rappresentare qualcosa di cui fregiarsi?

In Europa il Napoli ha sbattuto la testa sui propri limiti. Limiti che erano già evidenti e certificati dal cammino europeo che questa squadra aveva avuto in tutte e tre le stagioni in cui su quella panchina c’era Sarri. Tre anni d’Europa di cui rimangono da ricordare soltanto 45 minuti al San Paolo contro il Real Madrid, all’interno di una doppia sfida in cui gli azzurri beccarono comunque 6 gol. Così come 6 gol tra andata e ritorno fu il passivo rimediato l’anno scorso dal City di Guardiola, in un’altra doppia sfida in cui non mancarono anche sprazzi azzurri di calcio convincente e appassionante. Nella storia di un girone, tuttavia, in cui si uscì per mano dello Shakthar, perdendo persino a Rotterdam con il Feyenoord nell’ultimo atto. Con Ancelotti le cose sarebbero dovute cambiare. Non era solo una speranza, neanche un’ambizione solo dichiarata, ma un proposito sbandierato ai quattro venti da Aurelio De Laurentiis. Un proposito che aveva anche dato l’impressione di potersi inverare, nell’esaltante autunno che questa squadra ha vissuto. Il salto in avanti, l’approdo in una nuova dimensione sembrava una prospettiva dannatamente realizzabile, quando il Liverpool veniva schiantato al San Paolo, quando il caotico ma fastoso Psg veniva messo alle corde sia a Parigi che a Napoli. Poi un’invenzione, un colpo da fuoriclasse di un avversario, quel sinistro a giro di Di Maria sotto l’incrocio all’ultimo respiro a Parigi. Poi la bruciante serata di Liverpool. Quel momento in cui risulta anche nell’ordine delle cose doversi arrendere alla prevedibile e addirittura prevista superiorità dell’avversario, ma lottando fino all’ultimo residuo di tempo e di energia, giungendo a trovare a beneficio di Milik persino l’occasione per ribaltare il destino. Era finita male, ma il Napoli era andato bene. Fin lì c’eravamo. Si può anche perdere e nel caso degli azzurri non poteva rappresentare certo un disonore aver perso a Liverpool, uscire in un girone con i Reds e con il Psg, soprattutto non poteva essere un disonore averlo fatto in quel modo. E poi? Poi, cosa è successo? Perché quella squadra che era stata in grado di regalare l’illusione di una prospettiva così ambiziosa si è completamente svuotata di fiducia, di convinzione, ha smarrito energie atletiche e mentali, ha visto man mano disintegrarsi certezze tecniche e tattiche, trascinandosi stancamente e malamente in campionato, fino a giungere a questa nuova, ma ben diversa eliminazione.

Probabilmente il miglior Napoli di questa stagione. E poi?

Pure a Londra con l’Arsenal il Napoli può perdere e pure contro questa squadra può uscire, ma stavolta il modo è francamente sconcertante. Un modo che racconta di un’avvilente impotenza, di una squadra spenta, quasi vuota, che non era minimamente convinta né di se stessa, né di quello che avrebbe voluto o meglio dovuto fare. Non riuscendo a segnare neanche un misero gol in 180 minuti.

Eppure dopo Liverpool sia Ancelotti che De Laurentiis avevano ribadito la propria vocazione europea e le proprie ambizioni. “Vinceremo l’Europa League” aveva proclamato il tecnico in quel triste dopopartita e vista la sua proverbiale credibilità internazionale e visto l’incoraggiante percorso della sua squadra fino ad allora, tutti l’avevano preso maledettamente sul serio.

Fino ad allora, dovendo rimediare alla perdita estiva di Jorginho e dovendo fronteggiare un prevedibile calo di energie fisiche e nervose negli uomini cruciali di un gruppo che aveva tirato la carretta per tre anni, spingendosi al limite se non talvolta oltre le proprie possibilità, Carletto aveva messo in piedi la sua “riforma”. Aveva studiato un 4-4-2 ibrido, che in Europa in fase di costruzione si trasformava in un 3-5-2 con Maksimovic che, dopo il prolungato esilio cui l’aveva destinato Sarri, aveva trovato una sua indovinata collocazione nella parte destra della difesa. Il giovanotto di belle speranze Ruiz, invece, era stato destinato alla zona sinistra di centrocampo, dove agiva da esterno atipico e dove parevano potersi esaltare le sue doti nella falcata e nella conduzione della palla. In mezzo al campo Allan, macinando km e pure avversari grazie alla sua prepotenza atletica, faceva da scudiero ad Hamsik che, operando in uno dei suoi tanti ruoli possibili, era colui che possedeva indubbiamente le migliori capacità per distribuire, ordinare e cucire il gioco, sia con la palla nei piedi che senza, come suo inimitabile costume. Al centro della difesa Kalidou giganteggiava, esaltato dalle letture e dalla capacità di rappresentare il primo motore del gioco in fase di possesso possedute da Albiol. Davanti Insigne aveva trovato una sua nuova collocazione, spostandosi verso il centro dell’attacco e rivelando nei primi tempi un’inconsueta capacità realizzativa, alternandosi in coppia con Milik o con Mertens. Mentre Callejon sulla destra continuava a fare un po’ di tutto, come suo costume. Insomma, Carletto pareva aver assolto a quello che era il compito più difficile. Aveva preso una squadra con un’identità precisissima, direi addirittura granitica, e che proprio di questo aveva fatto il suo maggiore punto di forza e di affermazione, l’aveva gradualmente destrutturata, per giungere a rimodellarla, a plasmarla secondo nuove esigenze e diverse prospettive. Soprattutto, la cosa pareva funzionare bene. Per risultati, spesso anche per espressione di gioco, e poi anche per capacità di inserire e rendere parte del progetto coloro che fino ad allora erano rimasti esclusi. Con Ancelotti tutti avevano la loro possibilità e, chi più, chi meno, tutti riuscivano a dimostrare di poter recitare la propria specifica parte.

Koulibaly, pur non brillando, per voglia e atteggiamento è stato l'unico a salvarsi nella doppia sfida con i Gunners.

Finché è arrivato l’inverno. E di certo non sarà stata colpa del freddo se sono inopinatamente andate man mano calando prestazione e livelli di gioco individuali e collettivi. Per andare nel dettaglio ed essere specifici, Insigne non è stato più lo stesso. E nemmeno Allan. Hysaj e Mario Rui, che già si portavano dietro perplessità ataviche e neanche avevano convinto pienamente pure nel periodo migliore, hanno funzionato sempre meno. Piacevoli sorprese quali si erano rivelati Malcuit ed Ounas si sono man mano ridimensionate. Mertens, incastrato nel dualismo con Milik, ormai è diventato irriconoscibile. Callejon per correre continua a correre, ma (probabilmente a furia di correre, anno dopo anno) ha perso la sua proverbiale e preziosa incisività offensiva. Verdi non si è mai pienamente inserito. Rog e Diawara, alla fine, non hanno convinto, tanto che di uno ci si è sbarazzati a gennaio, mentre l’altro si è infortunato proprio quando forse poteva toccare a lui. Si è infortunato Albiol, Maksimovic ha dovuto fare di nuovo il centrale puro di una difesa a 4 e ha finito per rivelare ancora una volta i suoi limiti. Senza lo spagnolo pure Koulibaly va soggetto a preoccupanti sbandamenti. Zielinski invece di decollare verso gli orizzonti che molti gli prospettavano, si è tristemente involuto. Hamsik è stato venduto ai famigerati “cinesi”, e a centrocampo si è spenta la luce. Ruiz è stato investito dell’ingrato compito di sostituirlo e, chiamato ad assolvere compiti che probabilmente stridono con le sue caratteristiche, ha rivelato il lato oscuro della sua gioventù in un’inevitabile e ancora acerba fase di maturazione tecnica e tattica.

Ecco, nel pieno di questo sfaldamento tecnico, tattico e psicologico, il Napoli è tuttora secondo in classifica, con 7 punti di vantaggio sulla terza. Basta solo questo a dimostrare come ciò che si era fatto in questi anni non fosse un miracolo. Era il frutto dell’accurato e ottimo lavoro della guida tecnica incarnata da Sarri, ma era anche semplicemente frutto dei rapporti di forza vigenti nell’attuale Serie A, con buona pace degli autori di improvvide griglie estive. In ogni caso, finora, di tale sfaldamento ci siamo limitati ad evidenziare gli effetti. Se quegli stessi calciatori, che hanno fatto le fortune non solo del Napoli della prima parte di stagione ma anche del Napoli di Sarri, ora offrono prestazioni e rendimenti a tal punto peggiorati ci dovrà pur essere un motivo. Al netto di infortuni e di cessioni. Certo, conta molto pure lo stato di forma, una prevedibile usura atletica, mentale ed agonistica dopo anni di super lavoro e di super impiego, ma non può certo bastare a spiegare tutto.

Il ragionamento conduce a ritornare al punto di partenza. Bisogna ritornare al tema dell’identità. Come dicevamo era proprio la sua granitica identità il punto di forza indiscutibilmente maggiore di questa squadra nell’era Sarri. Una squadra composta da 11 tasselli che parevano incastrarsi mirabilmente in un corpo unico, prendendo una forma in cui le qualità dell’uno valevano ad esaltare le qualità dell’altro, raggiungendo una somma probabilmente anche superiore agli addendi. Tanto è vero che finivano per giocare, testardamente e incessantemente, più o meno sempre gli stessi 11. Se mancava un pezzo, l’insieme non funzionava allo stesso modo. Il valore del lavoro del tecnico toscano va riconosciuto essenzialmente in questa prospettiva. Tenendo presente il fatto che quei pezzi se li è trovati lì grazie al lavoro fatto negli anni precedenti e anche un po’ per caso; visto che la sua idea originaria era assemblarli in un 4-3-1-2 con Insigne alla Saponara, in un progetto di dubbia razionalità. Poi si narra vi fu qualche intercessione dall’alto (inteso come i vertici della società). Ovviamente e fuor di dubbio ci fu la bravura e l’illuminazione di quello che per i napoletani divenne il Comandante. E poi ci furono anche le contingenze. Mertens, per esempio, a Sarri non era mai passato per la testa potesse fare il centravanti. Ci fu l’infortunio di Milik e la scelta divenne innanzitutto una necessità.

Mertens tra i più forti nel suo ruolo, lo è stato solamente sotto la sua guida.

La nuova identità creata di Ancelotti, invece, ha finito inopinatamente per scontrarsi con la maledizione della precarietà. Ciò che all’inizio pareva incastrarsi e funzionare perfettamente, ha dimostrato di non saper reggere alle contrarietà e, soprattutto, di non reggere alla prova del tempo. È naufragato, a mio avviso, soprattutto l’esperimento Insigne. La sua involuzione e la sua preoccupante tendenza a finire in fuorigioco raccontano di un’incompiuta assimilazione al nuovo ruolo. Il tuorbillon di posizioni e di compiti tattici affidati a Zielinski ha probabilmente influito nel frenarne la crescita tanto attesa e sperata. Non solo Zielinski, anche altri calciatori hanno dovuto trasmigrare ruoli, posizioni e compiti tattici finendo probabilmente per perdere certezze non solo tattiche ma anche tecniche. Insomma, come la contemporaneità tende perfettamente a dimostrare, la flessibilità può rappresentare anche un valore, ma spinta oltre certi limiti si configura come precarietà e diventa uno dei disvalori più insidiosi.

Oltre e direi al di sopra della tattica e della tecnica vi è poi la questione atavica. Quella questione per cui “tutto cambia, ma alla fine non cambia mai niente”. Essa s’incarna in certe politiche in certe scelte societarie, in capo a colui che per definizione non si può esonerare, e cioè il nostro Aurelio De Laurentiis. Francamente me ne infischio della diatriba che si consuma ormai stancamente e direi anche stupidamente tra i cosiddetti papponisti e anti-papponisti. La questione che m’interessa, invece, è stabilire per quale motivo, nel momento in cui si prende Ancelotti, viene proclamata l’ambizione europea e si punta a vincere l’Europa League, a gennaio viene venduto il simbolo della squadra, il leader tecnico e tattico, una delle pedine preziose nella costruzione appunto di quella benedetta identità. E non ci si pone neanche il problema di pensare a qualcuno che, almeno idealmente, possa sostituirlo. Insomma, come si può pensare di voler raggiungere determinati obiettivi indebolendo la squadra in questo modo, piuttosto che potenziandola? Cambiano le ere, cambiano gli allenatori, ma certe cose non cambiano mai. Come quando, con la squadra in testa alla classifica, si pensò bene di rinforzarsi a gennaio con Grassi e Regini. O come quando si provò a risolvere il problema del super impiego degli uomini chiave di Sarri provando a strappare Politano al Sassuolo, e neanche riuscendoci.


  • Raffaele Cirillo, classe 1981, di Paestum. Fantasista di piede mancino, ma solo fino a 17 anni, rigorosamente un passo prima del professionismo. Iniziato al calcio dal pirotecnico Ezio Capuano nel settore giovanile dell’Heraion, che poi gli ispirerà anche un libro, un romanzo sul calcio intitolato "Il mondo di Eziolino". Con la stessa disposizione d’animo e la medesima aspirazione creativa con cui si disimpegnava in campo, ora il calcio lo guarda, lo interpreta e ne scrive.

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