Logo sportellate
brooklyn nets
, 14 Febbraio 2019

Brooklyn Nets: l'arte di rinascere


Senza rinascita niente è del tutto vivo”. (Maria Zambrano)


Chi lo sa se sulle sponde dell’East River, braccio di mare del distretto di Brooklyn il quartiere più popoloso della città di New York, credono nella resurrezione. Di sicuro la franchigia NBA dei Brooklyn Nets, che quest’anno sta stupendo tutti gli addetti ai lavori, può rappresentare il simbolo di una sorta di resurrezione di stampo cestistico. Non è stato un processo breve, ma lungo e tortuoso, che sta però riportando la gente di Brooklyn al Barclays Center. E magari ora gli “atei” di Brooklyn si sono convertiti e hanno iniziato a credere nelle divinità, in questo caso del basket.

Ma procediamo con calma per analizzare le varie tappe della “Brooklyn resurrection”.

ARIA DI ANELLO

Ottobre 2013. Deron Williams, Joe Johnson, Paul Pierce, Kevin Garnett e Brook Lopez. Questo era il quintetto dei Brooklyn Nets, che iniziavano la regular season di NBA come i principali antagonisti dei campioni in carica: i Miami Heat di Lebron James, Dwayne Wade e Chris Bosh.Inutile girarci intorno, era un roster di livello celestiale, se poi si considera che dalla panchina potevano uscire Shaun Livingston, Jason Terry e Andrei Kirilenko, gregari di tutto rispetto. Forse l’età media era un po’altina, ma la squadra affidata alla guida tecnica di Jason Kidd (che due anni prima vinceva l’anello da playmaker dei Dallas Mavericks), era una squadra che all'apparenza poteva giocarsela contro tutti.

Le cose non andarono però nei migliori dei modi: la franchigia del distretto di New York si rivelò una bomba a orologeria, con uno spogliatoio spaccato in due e troppi giocatori arrivati ormai alla soglia del tramonto. La strategia del magnete russo Prokhorov, presidente dei Nets, fu totalmente errata: Brooklyn ricoprì di soldi quelle che ormai erano ex superstar, (Garnett e Williams in particolare) ma soprattutto scambiò tante, troppe scelte future ai Boston Celtics, l’altra squadra coinvolta nella trade che ha portato "The Truth" e "The Revolution" sull’East River.

LA RIVOLUZIONE COPERNICANA

Febbraio 2016. Il successore di Prokhorov al comando dei Nets è il suo braccio destro Dmytry Razumov, che decide di rivoluzionare il settore tecnico della squadra, che stava annaspando nei bassifondi dell’Atlantic Division, con 10 vittorie in 37 partite: via il coach Lionel Hollins e il gm Billy King, dentro Tony Brown, tecnico ad interim, e Sean Marks nominato nuovo general manager. Il neozelandese è un ex giocatore di NBA, - nel 2005 vinse l’anello con gli Spurs - e dal 2011 fino al 2014 faceva parte del coaching staff di Gregg Popovich proprio a San Antonio. La missione di Marks è una delle più difficili che ci sia: riportare una franchigia che si trovava in condizioni derelitte in un team che potesse tornare a respirare aria di playoff. Diciamocela tutta, i Nets erano diventati gli zimbelli della lega. Avevano un roster con una stella in declino, Joe Johnson, un big man che non faceva mai la differenza quando contava, Brook Lopez, e tanti mezzi giocatori. E non avevano una prima scelta: perciò anche se viaggiavano in zone poco nobili della Eastern Conference, poi al draft i Boston Celtics si erano appropriati delle scelte di Brooklyn per colpa della famigerata trade Pierce-Garnett. Scelte che sarebbero diventate Jaylen Brown e Jayson Tatum, che ora indossano la casacca dei celtici.

Marks però proviene dalla ferrea scuola Spurs, e appena salito al timone dei Brooklyn Nets mette le cose in chiaro: «Dovremo seguire un processo di costruzione solido e pianificato. Anche se dovessimo portare una stella ai Nets, questa star dovrebbe prima di tutto integrarsi nel nostro sistema, altrimenti potrebbe rovinare i nostri piani». Idee, visioni e un progetto: i pilastri di Sean Marks.
E per prima cosa sceglie di portare sulla panchina del Barclays Center Kenny Atkinson. Atkinson è un allenatore che aveva fatto per quattro anni a New York il vice di Mike d’Antoni prima e di Woodson poi, mentre dal 2012 al 2016 aveva fatto il secondo di Mike Budenholzer agli Atlanta Hawks, (e “Bud” prima faceva parte del coaching staff di che squadra? Ah sì, stranamente dei San Antonio Spurs di Popovich). I Falchi di Budenholzer nel 2015 arrivarono primi nella Eastern Conference ed Atkinson era riconosciuto soprattutto come colui che sapeva migliorare alla perfezione i singoli giocatori. Ma era tutto da verificare alla prima esperienza al comando di un intero roster. Dopo di che Marks costruì una rete societaria, costituita da scout e uno staff medico e dirigenziale che avesse un’identità ben precisa, per un rebuild oculato e non frenetico come è accaduto per altre squadre. Tutto questo perchè senza basi non si va da nessuna parte, soprattutto se non si hanno prime scelte future e si detengono pochi assets e uno spazio salariale minimo per poter fare grandi mosse di mercato. Ma il neozelandese è riuscito a capovolgere la situazione: prima portando a Brooklyn giocatori finiti ai margini dei progetti di altre squadre, come Joe Harris dai Cavs, poi scambiando Thaddeus Young a Indiana per una prima scelta del 2016, che si sarebbe rivelata in Caris Levert (alla numero 20), e rivitalizzando giocatori finiti nel dimenticatoio: è il caso di Spencer Dinwiddie, che ventelleggiava nei campi della G League. Nel frattempo Atkinson aveva dato una forte impronta di gioco al suo roster: giocare duro, pace alto durante le partite e lavoro specifico sulle lacune dei singoli, sfruttando anche gli altrettanti punti forti dei suoi giocatori.

LA LUCE IN FONDO AL TUNNEL

Poi è arrivata l’estate del 2017 e Marks farà due magate: la prima è prendere alla 22 Jarrett Allen, centro all’apparenza solamente “capellone e nerd”, ma che in realtà è un grande stoppatore e ha ottimi tempi di penetrazione; la seconda è scambiare l’idolo di casa Brook Lopez e una prima scelta per il contrattone di Mozgov e DeAngelo Russell dai Lakers. Russell era stata la seconda scelta del draft 2015 da parte dei lacustri: il talento non gli mancava, ma contesto e mancanza di continuità convinsero il front office dei Lakers a privarsene. A Brooklyn non era più come prima: c’era un’identità, un buon coaching staff, diversi giovani interessanti, - Russell, Allen, Levert su tutti - specialisti come Harris e lunghi atipici alla Hollis-Jefferson, che è anche l’unico del gruppo che faceva parte dell’era Billy King.

Nella regular season dell’annata scorsa i Nets arrivarono dodicesimi nella Eastern Conference, con 28 vittorie su 82 partite, ma la strada da percorrere per rivedere la luce in fondo il tunnel era stata battuta.
E quest’anno i Nets stanno raccogliendo i frutti. Nonostante abbiano i diritti sulla loro scelta dopo cinque anni, Brooklyn non ha deciso di tankare per provare ad accaparrarsi la prima scelta assoluta, - vedi Zion Williamson - ma sta inseguendo il sogno playoff. Alla pausa per l’All-Star Game infatti, la “seconda squadra di New York” occupa la sesta posizione a Est.
Il tutto senza subire il contraccolpo del bruttissimo infortunio occorso a novembre a Caris Levert, la punta del diamante del roster di Brooklyn insieme a Russell. Atknson è riuscito a valorizzare diversi elementi del suo gruppo come Rodion Kurucs, lettone sbarcato in NBA quest’anno, e ha dato una seconda vita cestistica a Jared Dudley, veterano che ha già girato varie squadre e che ora è diventato il collante del gruppo.

Play-off, scelte proprie e anche ottimo spazio salariale grazie alle mosse mirate da parte di Marks: uno scenario incoraggiante per i Nets, che quest’estate avranno la possibilità di pescare un grosso big dalla free agency 2019, che si prospetta spettacolare, con superstar del calibro di Irving, Durant e Leonard che devono scegliere con che squadra firmare l’anno prossimo. Insomma, a Brooklyn si rivede qualcosa che non accadeva da troppo tempo. E Sean Marks, il gm “brooklyniano”, rivela la ricetta vincente per la rinascita dei Nets: «Tutti e 17 i nostri giocatori vivono a Brooklyn, escono insieme, mangiano fuori insieme, si relazionano con tutti i tifosi. Questo significa che adesso non siamo solo una franchigia, ma una famiglia: la grande famiglia Nets».

Chi l'avrebbe mai detto?


  • Carlo Cecino, giovane trevigiano di belle speranze. Nato il 18/05/1994 durante la meravigliosa notte di Atene, col Milan che sculacciava il Barcellona di Cruijff, si appassiona fin dal primo ciuccio allo sport. Segue con fervore il basket, con i San Antonio Spurs in cima alle ricerche. Entrare nel mondo giornalistico sportivo è il sogno, ma anche diventare il magazziniere dello spogliatoio dei New York Knicks non sarebbe male. Gli idoli sono Valerio Fiori e DeShawn Stevenson, oltre a Federer, leggenda vivente del tennis.

Ti potrebbe interessare

Come non raccontare l'incubo del Franchi

8 Spicchi #3 - Ci eravamo dimenticati di Houston

Quello che non Phila

8 Spicchi #2 - Finché c’è Steph c’è speranza

Dallo stesso autore

Considerazioni sparse post Corea del Sud-Ghana (2-3)

Considerazioni sparse post Galles-Iran (0-2)

Considerazioni sparse post Belgio-Canada (1-0)

Considerazioni sparse post Francia-Australia (4-1)

Considerazioni sparse post Empoli-Atalanta (0-2)

Considerazioni sparse post Monza-Udinese (1-2)

Considerazioni sparse post Torino-Lazio (0-0)

Considerazioni sparse post Spezia Atalanta (1-3)

Considerazioni sparse post Villarreal-Liverpool (2-3)

Considerazioni sparse post Liverpool-Villareal (2-0)

Newsletter

pencilcrossmenu