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, 13 Febbraio 2019

Sarri e la falsa coscienza


La vita di un uomo è fatta di una serie sterminata di momenti, in fila uno dopo l’altro. Considerandoli nella loro metodica, ritmica successione, sarebbe impossibile ritracciare in essi un’unità di senso, riconoscere qualcosa a cui dare un significato compiuto. Sarebbe impossibile capirci qualcosa e, di conseguenza, sarebbe del tutto impossibile provare a dare uno straccio di senso sia alla nostra vita che a ciò che ci circonda. Per fortuna c’è la memoria, programmata com’è programmata, a fare il suo sporco lavoro. Per dimenticare prima di tutto, e poi per ricordare. La memoria sceglie cosa ricordare in quella sterminata serie di momenti in fila uno dopo l’altro, trovando quelli che servono a significare qualcosa, dimenticando il resto.


La memoria di un uomo di 60 anni come Maurizio Sarri ne deve aver fatto del suo sporco lavoro per dimenticare la sua sterminata serie di momenti, selezionando quelli da ricordare. E lui ce li ha lì, proprio come tutti, per poter provare a dare un senso a tutto. Il resto del mondo, quelli che non lo conoscono intimamente, non possono conoscerli e non possono saperlo.

Al resto del mondo, però, ormai Maurizio Sarri non è più sconosciuto, specie da quando è approdato alla soglia dei 60 anni, qualche mese fa, sulla panchina di uno dei club più ricchi del mondo, nel campionato più ricco del mondo. Non certo come 28 anni fa, quando era un impiegato di banca che nel tempo libero faceva l’allenatore-giocatore dello Stia, una squadra di Seconda Categoria nella provincia di Arezzo. A quei tempi nessuno, tra quelli che lo conoscevano, poteva neanche immaginare che sarebbe arrivato proprio dove è ora, molto probabilmente neanche lui, cui pure non è mai mancata un’alta considerazione di se stesso.  È una di quelle belle storie, fatte di passione, di lavoro, di tenacia e fatta pure della materia dei sogni. Ora però, che lui e la sua storia sono conosciuti nel mondo, può risultare possibile a tutti assistere a un momento della sua vita. È accaduto domenica, quando il mondo ha assistito ad una scena a cui non ha potuto evitare di attribuire un forte significato simbolico.

Non si tratta di giudicare un uomo, né tantomeno un allenatore per una minuzia del genere, anche in tempi in cui i giudizi sommari non si negherebbero a nessuno ed in giro c'è sempre pieno di chi aspetta, addirittura con trepidazione, il momento in cui poter indossare una qualsiasi toga virtuale. Spiace per loro, ma persino gli aspiranti giudici di qualsiasi sorta saranno costretti a venire a patti con il fatto che una stretta di mano mancata è decisamente troppo poco per processare un uomo.

Non serve e non si presterebbe, dunque, a ciò quella scena e non è per questo che colpisce. Eppure colpisce, eppure ha un senso profondo. Quell’uomo di 60 anni che china la testa e procede spedito verso lo spogliatoio, come se volesse fuggire dietro le quinte, nella fretta di abbandonare il palcoscenico, incurante della mano tesa del rivale, che per l’ennesima volta ha dimostrato che quel palcoscenico è tutto suo. E non è un caso che a stringere la mano dell’interdetto Guardiola arrivi Gianfranco Zola. Zola adesso sarebbe solo il secondo di Sarri, ma in realtà è The Magic Box, colui che ha fatto innamorare in tanti e non solo nell’elegante quartiere londinese che ospita la sede dei blues, con le sue piroette e con le magie che il suo destro era in grado di realizzare. Colpisce profondamente anche l’espressione del sardo, la sincerità e lo stupore del suo imbarazzo. Non se lo aspettava Zola, e non se lo aspettava neanche Guardiola. D’altronde i due “colleghi” si dichiarano amici, e ciò che pubblicamente si dicono e si mandano a dire vicendevolmente tenderebbe a dimostrarlo. E non da ora, è già almeno dall’anno scorso che Guardiola si profonde in sperticati elogi di Sarri, del suo lavoro, esaltando prima il Napoli da lui allenato e (ancora alla vigilia di questa partita) persino il suo Chelsea. Tanto che tali attestati di stima hanno anche avuto un’influenza sulla credibilità internazionale e sulle referenze di Sarri, che pur con il Napoli, se non altro, non aveva affatto ottenuto risultati memorabili nelle competizioni europee. Insomma, nella bella storia dell’ex impiegato di banca che parte dallo Stia e arriva ai milioni di Abramovich, il Pep si sarebbe persino guadagnato il diritto alla riconoscenza.

Forse il gol più bello segnato da Gianfranco Zola in maglia Chelsea.

Non che di riconoscenza per il suo più giovane e anche decisamente più consacrato collega, il burbero Maurizio non ne abbia. Anzi, ne ha eccome. Lo ha dimostrato e continua a dimostrarlo pure lui pubblicamente. Lo ha fatto anche nella conferenza stampa dell’altro giorno, di presentazione alla gara. Per provare a capire e dunque a spiegare meglio, bisogna soffermarsi proprio su quella conferenza stampa; quando Sarri fa esplicito riferimento ad un altro suo venerabile sponsor, indicandolo come l’ispiratore e il trait d’union che lo lega anche al catalano: “Io e Pep siamo figli di Arrigo Sacchi. Tutto è cominciato con lui”.  Ecco, da qui forse possiamo cominciare a capire meglio. Perché Sacchi? Che significato e che valore attribuire alla scelta di questo riferimento? Come sempre ciò che risulta davvero ineludibile sono i dati di fatto. Un dato di fatto è che nella costruzione del proprio percorso e della propria identità professionale Guardiola abbia tratto ispirazione, spunti e insegnamenti da Arrigo Sacchi. Così come, ovviamente, anche Maurizio Sarri. Ce lo hanno detto, in più di un’occasione, e continuano a dircelo entrambi. Così come è un dato di fatto la persistenza dell’interazione e del rapporto amichevole tra i tre. C’è pero qualcosa di più; Sarri e Sacchi condividono un destino oltre che un’impostazione ideologica sul calcio. Sarri e Sacchi hanno in comune una spinta e un’aspirazione religiose più che filosofiche. Un sacro fuoco, potremmo definirlo. Per provare a capirlo meglio, noi che magari ne siamo immuni, potremmo pensare ad un amore giovanile impetuoso e totalizzante, però non corrisposto. Solo che invece che pensarlo rivolto e destinato a esseri umani, dovremmo pensarlo rivolto e destinato ad un pallone. Ad entrambi, nello strapotere e nella debordante pienezza della loro passione, è stata negata la sublimazione. Banalmente, perché erano scarsi con i piedi. E quindi mentre gli altri inventavano, dribblavano, facevano gol, loro si dovevano limitare a mordere le caviglie degli attaccanti avversari, da terzinacci vecchio stampo, peraltro nei campionati dilettantistici. Non che anche così non se ne possa ricavare soddisfazione, prova ne sono la miriade di terzini e persino di calciatori mancati che conducono esistenze felici e addirittura spensierate. Il problema è che loro, dentro, avevano quel sacro fuoco, quell’aspirazione e quella spinta più religiose che filosofiche, e quel fuoco continuava ad ardere senza volerne sapere di spegnersi. Così, visto che in campo non era possibile, la loro religione si sono messi a professarla su una panchina. Facendolo con una tale convinzione, spinti da un fervore e da una passione tali, che non potevano che condurli al successo.

Esiste pure il lato oscuro della luna, tuttavia, ce lo insegnano anche i Pink Floyd. Ed è proprio a quel lato oscuro, non solo al successo, che possono condurti sempre il fervore, la passione e la fede quasi religiosa nelle proprie idee. Ora, analizzare Sacchi e la sua carriera sarebbe discorso lungo, complesso e che in questa sede sarebbe pure poco interessante; basti dire che oltre quel grande e decisamente glorioso Milan, il vate di Fusignano non è andato. In una finale mondiale sì, a pensarci di questi tempi risulta una cosa grandiosa, ma quello non è comunque un bel ricordo. E basti dire che quel Milan era una squadra formata da campioni straordinari, come anche in seguito hanno avuto modo di dimostrare. Torniamo ora, invece, al nostro amico di Figline Valdarno e giungiamo a dire che una certa sua progressiva presa di coscienza, in quello che doveva rappresentare il momento della sua consacrazione, lo ha portato a sentirsi depositario privilegiato di una specie di idea sacra di calcio, e la cosa non lo sta affatto agevolando. Innanzitutto da un punto di vista psicologico. La scena, di cui abbiamo tanto parlato all’inizio, non può che rappresentarne una prova provata. Poi, nello specifico, non lo sta affatto agevolando dal punto di vista tecnico e, dunque, in termini di efficacia del suo lavoro.

In sintesi, l’abbaglio di cui risultano vittima determinati tipi di allenatori, che li porta invariabilmente e pericolosamente a perdere lucidità, consiste nel credere che a determinare le fortune della squadra che allenano siano essenzialmente le proprie teorie, come se queste possano rappresentare una verità scientificamente dimostrabile su un campo da calcio, o peggio ancora un dogma. Questa è quella che in altri tempi e in altri ambiti si sarebbe potuta definire falsa coscienza. Se Sarri fosse effettivamente marxista (non lo so), di certo saprebbe bene di cosa si tratta. Per farla semplice, lasciando tra parentesi Marx, nel caso di specie essa può essere rintracciata nella convinzione che un determinato modello, fatto di teorie, di movimenti ben codificati, di schemi, di concetti possa necessariamente replicarsi e riprodursi su un campo di calcio, essenzialmente perché quel modello è ben studiato, ben pensato e ben applicato. E allora finisci per illuderti che se a Napoli avevi Mertens, Callejon, Hamsik, Insigne, Jorginho, Albiol, Koulibaly, Allan che facevano alla perfezione determinate cose, quando vai a Londra portandoti dietro Jorginho, hai Hazard, Willian, Pedro, Azpilicueta, Kovacic, Rudiger, David Luiz, questi devono necessariamente fare bene quelle stesse cose che facevano quegli altri. Tanto più che, magari, alcuni di loro sono pure indubbiamente più forti degli omologhi azzurri. Come se Hazard dovesse prendere palla sulla sinistra, stringere verso il centro e poi zac, con una parabola di interno collo destro dolce e precisa, andare a pescare con tempo perfetto il taglio dall'altro lato di Willian, beffando puntualmente la difesa avversaria; che certamente se lo dovrebbe pure aspettare, ma tempi ed esecuzione sono così precisi che finisci comunque per rimanere fregato. Il problema è che questo è ciò cui sono predisposti a fare e sono capacissimi di fare Insigne e Callejon, per le qualità e le caratteristiche tecniche e tattiche che li contraddistinguono. Tanto è vero che lo facevano anche prima di Sarri, magari con meno frequenza e con perizia non ancora perfettamente affinata. E continueranno a fare lo stesso con qualsiasi altro allenatore, specie se giocheranno insieme. Hazard e Willian, invece, hanno qualità diverse, abilità e capacità, sia con la palla nei piedi che senza di essa, che li predispongono naturalmente ad altre e diverse giocate. Dunque per valorizzare le loro straoridinarie capacità magari servirebbe un diverso impianto di gioco. Un altro confronto che giunga a conclusioni simili potrebbe benissimo farsi tra altri giocatori. Oppure, senza fare confronti tra giocatori diversi, basterebbe prendere in considerazione un calciatore solo, Jorginho, osservando la sua differenza di rendimento da una squadra all'altra. Forse il brasiliano di passaporto italiano, fresco anche dell'investitura di Mancini con la maglia azzurra, è diventato un brocco da un momento all'altro? Direi di no. Direi piuttosto che egli rimane un ottimo giocatore, ma in determinati contesti e a determinati ritmi di gioco.

Il concetto rimane lo stesso e sarebbe anche molto semplice: provare a strutturare una squadra integrando nel miglior modo possibile le qualità e le specificità di coloro che la compongono, per trarne la forma che risulti più razionale, equlibrata e (perché no) anche bella. Purchè l'elemento da cui si parta siano appunto i calciatori, le loro qualità e le loro caratteristiche, piuttosto che un modello che si ritiene di aver costruito o addirittura inventato. Solo una falsa coscienza può indurre a pensare di dovere e di poter fare il contrario,  giungendo a convincerti che ciò che conta e ciò che serve davvero per giocare bene a calcio sono quelle determinate idee, quei determinati concetti, certi determinati movimenti e determinati meccanismi, che magari pensi di saper insegnare solo tu. Così, mentre tutto il resto del mondo (Guardiola escluso, almeno a parole) si rende conto che Hazard, Kanté, Willian sono sì calciatori decisamente straordinari, ma se uno continua a voler pretendere che facciano le stesse cose di Mertens, Allan, Callejon non solo non va da nessuna parte, ma li espone pure a brutte figure, Sarri rimane fisso e inamovibile sulle sue idee, senza darsene minimamente per inteso. Convinto che solo quella sia la strada e che in essa soltanto risiedano verità e redenzione. Salvo poi giungere a beccarne 6 dal City, fuggendo via a fine partita, privo pure della forza di alzare gli occhi da terra, senza neanche la voglia di difendere quel'ultimo straccio d'onore stringendo almeno la mano all'avversario. Quel Guardiola, tra l'altro, che prima di essere un allenatore è stato anche un calciatore affermato e che, davanti ai giornalisti, spesso sembra voler alimentare anche lui tale falsa coscienza.  Come se il catalano non sappia che senza Messi e Iniesta nella sua squadra, difficilmente si sarebbe mai parlato così tanto di lui. Come se non sapesse che questo City quando può contare su De Bruyne è una squadra, quando invece non può contarci ne è decisamente un’altra.

Ora, malgrado a Londra, a Chelsea e persino nel suo spogliatoio pare che Sarri possa ormai contare su pochi amici, la sua avventura sembra non essere ancora arrivata definitivamente al capolinea. Tra coloro che lo difendono e tra i suoi estimatori, che pur sono tanti e certamente meritati, prevale la tesi secondo cui per riuscire ad inculcare determinate idee e determinati concetti, ci vuole tempo e non si può pretendere di volere tutto e subito. Il che è pur vero, ma a questo punto la domanda che sorge spontanea a me, ai tifosi del Chelsea e probabilmente pure ad Abramovich è: ma se allora l’obiettivo e l’intendimento è voler costruire qualcosa nel tempo, perché si continua a puntare ossessivamente sugli stessi uomini e non si schierano mai giovani di grandi prospettive come Hudson-Hodoi e Loftus-Cheek? O anche perché ci si ostina a schierare David Luiz, mentre un giovane difensore come Christensen non vede mai il campo? E perché, quando a gennaio si tratta di scegliere qualcuno su cui fare la propria puntata, si va a puntare su Higuain, che ha ormai 31 anni e non sembra certo nella fase ascendente della sua carriera?


  • Raffaele Cirillo, classe 1981, di Paestum. Fantasista di piede mancino, ma solo fino a 17 anni, rigorosamente un passo prima del professionismo. Iniziato al calcio dal pirotecnico Ezio Capuano nel settore giovanile dell’Heraion, che poi gli ispirerà anche un libro, un romanzo sul calcio intitolato "Il mondo di Eziolino". Con la stessa disposizione d’animo e la medesima aspirazione creativa con cui si disimpegnava in campo, ora il calcio lo guarda, lo interpreta e ne scrive.

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