O capitano, mio capitano!
O capitano, mio capitano!
Il nostro viaggio tremendo è terminato...
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
mentre gli occhi seguono l'invitto scafo, la nave arcigna e intrepida...
Era una serata di festa, quella del 2 febbraio 2019 al San Paolo. Una festa per pochi intimi certo, ma spesso è così: «quando il mare è calmo ogni s*****o è marinaio» dicono i saggi; mentre quando imperversa la tempesta non c'è niente di più sicuro della terraferma, di un posto caldo e asciutto, magari con un posto in prima fila in cui osservare e perché no prendere per il sedere coloro che invece la tempesta la cavalcano. E la tempesta, dopo l'eliminazione dalla Coppa Italia, infuria maledettamente forte sulla squadra del golfo più fotografato al mondo: fra chi rimpiangeva il vecchio allenatore Sarri, chi si scagliava contro la società, chi contro gli attaccanti non all'altezza della situazione, chi accusava di scarsa professionalità coloro che magari erano semplicemente incappati in una serata storta, avvenuta solo casualmente dopo un clamoroso colpo di mercato sfumato (dando credito alla pericolosa fallacia post hoc, ergo propter hoc: ma ci sta anche bene, finché resta su un campo di calcio e non su terreni più spinosi); in pochissimi sabato erano al San Paolo a sostenere la squadra, alle prese con la difficile prova contro la lanciatissima Sampdoria.
Però lui, il capitano, c'era, come deve esserci un vero capitano, in prima fila nei momenti difficili, quando tutto sta per sgretolarsi in mille pezzi. E ha svolto al meglio la sua missione: quella di portare nel porto sicuro della vittoria la nave azzurra. Lo ha fatto mettendoci la faccia, sfoderando una grandissima prestazione in un ruolo nel quale solo quest'anno si è riciclato, pur di essere ancora utile alla causa azzurra.
Una prova in cui ha smistato il pallone con intelligenza e precisione, entrando anche nell'azione del primo gol azzurro quando, con un gran cambio di gioco, serve la corsa di Callejon.
Una partita di spessore, di quelle a cui Napoli è ormai abituata da 12 lunghi anni. Molte delle 520 partite (record all-time per un calciatore con la società partenopea) in maglia azzurra sono state proprio come sabato sera: partite in cui Hamsik magari non faceva nulla di straordinario, ma rassicurava con la sua presenza e il suo modo di saper stare in campo, così naturalmente fluido ed elegante nelle movenze, così padrone dei gesti tecnici più disparati quanto di un tempismo perfetto quando si trattava di inserirsi fra le maglie della difesa avversaria. Proprio ciò che serviva a una squadra, un ambiente apparso quasi smarrito al vanificarsi del secondo obbiettivo stagionale.
Quando esce dal campo, battendosi la mano sul petto, il pubblico applaude ed esterna la sua gioia e la sua gratitudine per quello slovacco dallo spiccato senso di appartenenza alla squadra, lieta di saperlo lì, come sempre, pronto ad aggiustare le cose.
L'ultima passerella per Marek Hamsik, la leggenda azzurra.
Le parole di Ancelotti, arrivate al termine del match, hanno proprio per questo l'effetto di una doccia ghiacciata: dopo 12 anni Hamsik sveste la maglia che lo ha reso grande, a cui ha donato una carriera ricevendone probabilmente meno di quanto i suoi talenti meritassero e avrebbe potuto ottenere se, egoisticamente, avesse scelto altri lidi precedentemente.
Si ammaina una delle ultime bandiere del calcio italiano, simbolo di una squadra caduta rovinosamente e disgregatasi al punto da ripartire dalla Serie C, un vero e proprio letamaio rispetto ai livelli che competerebbero alla squadra azzurra. Ma dal letame, si sa, nascono i fiori: Hamsik è stato il primo fiore di questo Napoli che, dalle sue ceneri, ha saputo rinascere facendosi sempre più forte, issandosi ormai stabilmente a seconda forza della Serie A.
Hamsik non è stato solo uno dei volti più riconoscibili della Serie A, con la cresta alta, la 17 sulla schiena e i calzerotti portati bassi a scoprire i parastinchi: Hamsik è stato l'idolo di una generazione intera di tifosi, quelli che appunto hanno visto il Napoli scalare le gerarchie del calcio italiano dai bassifondi fino alle vette più alte; quelli che si sono identificati in lui e hanno trovato ispirazione per alzare anche loro la cresta, in maniera figurata come no. Allo slovacco sono legati i momenti più felici, calcisticamente parlando, della storia recente del Napoli: due Coppe Italia, la seconda sollevata da capitano, e una Supercoppa Italiana che non si dimenticano facilmente, specie se in molti della "generazione Hamsik" erano abituati a vedere il Napoli arrancare con Varricchio e Berrettoni in campo contro Gela, Acireale, Sora o Chieti, e di vincere un trofeo nemmeno ci si azzardava a pensarlo. E peccato per quello scudetto mancato, nonostante sia andato davvero a tanto così da fregiarsi anche del tricolore più ambito dai tifosi italiani.
Eppure, nonostante manchi all'appello il titolo col quale si entra negli annali, "il viaggio tremendo è terminato, la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambito premio è conquistato": Hamsik è riuscito, perlomeno a livello individuale, a superare ogni ostacolo. L'ultimo lo scorso 6 novembre, in Champions League, quando contro il PSG ha marcato la sua presenza numero 512 in azzurro, superando in questa classifica un certo Bruscolotti, che deteneva orgogliosamente questo record da 30 anni, quando Marek forse aveva appena imparato a camminare.
Appartiene a Marek anche un altro record, forse più famoso, di certo più celebrato: per 121 volte i tifosi hanno urlato a squarciagola il suo nome dopo aver spedito il pallone nella porta avversaria, più di chiunque altro, persino di Maradona. Quel record siglato il 23 dicembre 2017, con questo gol siglato alla Sampdoria. Quella stessa Sampdoria che, tre decadi addietro, aveva subito sia il primo sia l'ultimo gol italiano del pibe de oro. Quella stessa Sampdoria che fu spettatrice dell'inizio della grande storia d'amore fra un ventenne Marek Hamsik e il pubblico partenopeo.
Quella Sampdoria, benedetta o maledetta, ormai non si capisce bene, che chiude il cerchio, che è il miglior porto dove condurre la nave e completare la propria missione di capitano.
E questo fantastico gol, in cui si intravedeva ciò che per dodici anni lo slovacco avrebbe mostrato in campo, a suggellare questo rapporto viscerale poi creatosi.
Ci mancherai, Marek: ai tifosi, che avevano ormai imparato a scendere a patti con quell'ossimoro vivente che, in un modo o nell'altro, rappresentavi. Look da cantante rock-metal incazzato col mondo eppure così calmo, gentile e disponibile; elegante come pochi altri calciatori sono passati per Fuorigrotta eppure una maschera di rabbia che esplodeva a ogni esultanza, quasi come se il gol fosse l'unico modo che conoscessi per incanalare e far esplodere un fiume in piena di nervi che però, per giocare ad alti livelli, va tenuto a bada, mettendo sempre la testa al primo posto, nella sala comandi.
Ma non ci mancherà solo come calciatore: Hamsik è stato molto di più, per Napoli e i napoletani. Hamsik è stato un capitano, un esempio, un beniamino, un campione, ma anche una persona legata al territorio, che ha saputo mettere il cuore in ciò che faceva e in coloro per cui lo faceva. Un uomo che ha saputo identificarsi al punto da scegliere come residenza proprio Castel Volturno, a due passi dalla casa della SSC Napoli, in un territorio per troppi anni lasciato all'incuria e al degrado ma che, con un concittadino di tale prestigio, ha rivisto una luce di speranza. Un uomo intelligente, che ha saputo davvero amare e proteggere Napoli, più di tanti che magari dai gradoni del San Paolo cantano di difendere la città ma che nella vita di tutti i giorni continuano a calpestarla e sputarci sopra facendole perdere le ultime residue tracce di verginità, nonostante tutto, non assecondando stupidi stereotopi ma credendo davvero in una città che, dietro le enormi difficoltà in cui versa, ha tanto di buono da offrire.
A Napoli e al Napoli Hamsik ha offerto tutto questo, sposando la causa azzurra più e più volte, non abbandonandola in altre circostanze quando altri contratti avrebbero potuto portarlo in realtà che avrebbero potuto fargli togliere maggiori soddisfazioni sul campo. Quantomeno fino ad oggi, quando l'offerta indecente è infine arrivata per davvero, e sarebbe stato impossibile dire ancora di no. E fa male, soprattutto per il momento in cui si consuma questo addio: non solo dal punto di vista sportivo, in quanto abbandona la possibilità di lottare per un ultimo alloro da conquistare, quello continentale, privando al contempo la squadra della sua tecnica, della sua esperienza e del suo carisma; quanto perché in questo modo Napoli non ha potuto tributargli l'ultimo, giusto tributo.
Ma forse è meglio così: dirsi addio è difficile, e a volte è meglio farlo così, inconsapevolmente, per evitare una marea di cuori spezzati.
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