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, 10 Ottobre 2018

Alvaro Recoba: pigro e romantico


Un talento fragile ma iconico.

“Essere o non essere: questo è il dilemma”. Tra le due categorie del dilemma amletico ne esiste almeno un’altra, fantasiosa e stimolante, suscettibile di contenere gli scenari più impensabili, ma anche i più lapalissiani, sebbene non realizzati. Stiamo parlando del “sarebbe potuto essere”: categoria tanto eccitante quanto fallace e, forse, allo stesso tempo la più sconfortante una volta fatti i conti con la realtà. A questa non poteva non appartenere Alvaro Recoba.

Alvaro Alexander Recoba Rivero è nato a Montevideo il 17 marzo 1976. Montevideo, capitale dell’Uruguay, è una splendida città, affacciata sull’oceano e sulla sponda settentrionale dell’immenso Rio de la Plata, da sempre terra di accoglienza e contaminazione culturale, tanto da competere con la più rinomata Buenos Aires, non tanto per la collocazione geografica (la capitale argentina si trova sulla riva opposta del fiume), ma soprattutto come centro ricettizio dell’enorme mole di emigrati europei, contenitori umani di dolori, speranze, illusioni e di quel senso di “vivere alla giornata” che sarebbe rimasto un carattere proprio dell’America Latina. Ciò ha reso la capitale uruguagia un rigoglioso centro artistico, meno mainstream rispetto a Parigi, Vienna o alla già citata Buenos Aires.

La storia calcistica di El Chino, soprannome affibbiatogli per via dei suoi tratti fisionomici vagamente orientali, inizia nelle giovanili del Danubio (non proprio la primissima squadra in un città che di rappresentative locali ne conta più o meno una dozzina, quasi una per ogni barrìo). A scoprirlo, per modo di dire, è stato un ex calciatore collega del padre di Recoba, che di mestiere faceva il tassista: il suo nome è Rafael Perrone, puta caso colui che sarebbe diventato suo suocero. Ciò capitò, probabilmente, perché in adolescenza El Chino trascorse più di un anno a casa del futuro parente, che lo ospitava in quanto Alvaro aveva cominciato a lamentarsi della lontananza del campo di allenamento e del fatto che dovesse quotidianamente pagare l’autobus per prendere parte alle sessioni di pratica. La futura moglie dirà: ”Dovetti anche cedergli la stanza”. Già allora si intravedeva una certa riluttanza verso l’allenamento; a tal proposito una volta disse: “Non è che odi allenarmi, diciamo che non mi piace particolarmente. È come quando andavo al liceo, ci sono materie che ti piace studiare di più ed altre meno. Ecco, l’allenamento è la parte che mi piace meno del mio lavoro, ma devo pur farlo e lo faccio.” È lo stesso Danubio che lo fa esordire nella massima serie nazionale e con il quale Recoba resterà per due anni. L’ambiente familiare ed ovattato del Danubio, senza troppi obiettivi, gli permetterà di crescere e farsi conoscere al calcio latino, soprattutto nella seconda stagione nella quale iscrive a referto il proprio nome per quattordici volte in venti partite, molte giocate da subentrato. Un inizio così promettente non può far altro che attirare l’attenzione delle due grandi compagini di Montevideo: il Penarol ed il Nacional.

Figurina di Alvaro Recoba nel 1995.

Chino sceglie la camiceta tricolor con la quale giocherà una sola stagione, sfoderando prestazioni sontuose, e ratificando a suon di gol (trenta) il ruolo di nuova stella del calcio sudamericano. In quella stagione magica del 1997, tra la miriade di giocate sensazionali che fanno infatuare tifosi, telecronisti, addetti ai lavori ed anche il Presidente Moratti, El Chino realizza quella che, a detta sua, resta la marcatura più bella della sua vita: il teatro della poesia, intesa nella semantica originaria di creazione, è l’Estadio Gran Parque Central, casa del Nacional; gli avversari sono i Wanderers di Montevideo. Spiegare a parole ciò che è stata una sequenza di movenze tanto elegante quanto dirompente è cosa ardua, ma più o meno andò così: Recoba parte dalla posizione di terzino sinistro nella propria metà di campo e corre in diagonale col pallone quasi sempre incollato al piede saltando quattro o cinque giocatori. Evitato l’intervento di tre difensori, che a dirla tutta oppongono ben poca resistenza, ed elusa l’uscita bassa del portiere, accomoda la palla in rete. Ovviamente di sinistro. È uno di quei gol che ti capita, se ti capita, di segnare una sola volta nella vita, forse due se sei un fuoriclasse e pure fortunato, ed anche quando ricorre la prima delle due condizioni, spesso, non è sufficiente. Alvaro, invece, ha vent’anni ed un futuro luminosissimo davanti, o almeno così ci si aspetta.

Il miglior gol dell'annata 1997.

Lo sbarco in Europa

In quell’estate del 1997 di colpi di scena ed intrighi per sbizzarrirsi sui titoloni da dedicare al calciomercato, ce ne saranno stati decine. A rubare il palcoscenico, però, è l’arrivo a Milano, sponda nerazzurra, di un ragazzotto brasiliano con un gran sorriso e due incisivi che fanno sì che te ne ricordi, che da alcuni anni, trascorsi tra il sud-est dei Paesi Bassi e la Catalogna, fa impallidire i difensori di tutt’Europa: al secolo passerà come Ronaldo. Il presidente Moratti corona la campagna acquisti, che oggi definiremmo faraonica (insieme al Fenomeno arrivano anche Ze Elias, Cauet, Winter, West, El Cholo Simeone, Checco Moriero), cacciando fuori poco più di 50 miliardi del vecchio conio per strapparlo al Barcellona. Recoba, invece, arriva a fari spenti, in sordina, costato poco più di sette, ma già col marchio del predestinato. Si narra che a contenderselo ci fosse anche la Juventus, ma che El Chino abbia scelto l’Inter sotto consiglio del connazionale, ex nerazzurro, Ruben Sosa. Ovviamente, il giorno della presentazione ufficiale della squadra, gli 80.000 che riempiono San Siro sono tutti lì per l’attaccante carioca, a nessuno importa d’altro. Come biasimarli. Lo stesso Recoba dirà su quella sera: “Mi sentivo un infiltrato”. Sarà così anche per la prima di campionato, il 31 agosto, nella quale l’Inter ospita il Brescia. Il Meazza è costipato in ogni suo posto ed angolo. Tutti attendono le prime giocate italiane del Fenomeno. I minuti passano, ma il risultato rimane piantato. A destare stupore e sbigottimento tra gli spettatori è il vantaggio del Brescia, firmato dal bisonte Hubner su assist di un giovanissimo, e sconosciuto ai più, Andrea Pirlo. Pochi minuti prima Recoba aveva messo piede in campo. I nerazzurri si riversano in massa nella metà campo avversaria per risollevare un pomeriggio che ha già il sapore di figuraccia. Al minuto 80 Alvaro riceve da Cauet a 35 metri dalla porta, leggermente decentrato sulla sinistra; fa col destro l’unica cosa che sapeva fare con quel piede, ossia sistemare la sfera per calciare di sinistro. Ciò che ne viene fuori è un bolide teso ed imprevedibile che s’infila sotto l’incrocio dei pali alla sinistra di Cervone. San Siro impazzisce. Ma non è finita qui, perché nelle storie che somigliano più ad una sceneggiatura romanzesca che alla realtà, non finisce mai qui. Qualche giro di lancette più tardi, l’uruguagio concede il bis su calcio piazzato, ancora da distanza proibitiva, ancora all’incrocio dei pali. Recoba l’ha ribaltata. Tutti ad attendere il Fenomeno verdeoro, quel pomeriggio caldo e soleggiato di fine estate scoprono El Chino.

Questo è l’episodio che forse meglio rappresenta la serendipità nella quale ha vissuto Recoba, o nella quale a sua insaputa si è ritrovato a vivere. Essere il migliore quando da te non ci si aspetta nulla. Paradigma di una carriera. Gli capitò anche all’esordio con la Celeste in un’amichevole contro la Roja spagnola in quel di La Coruna, nella quale i presenti erano lì più che altro per vedere un altro campione, Enzo Francescoli (a mio avviso, una delle entità più alte del calcio sudamericano). Al debutto con la nazionale El Chino non segna, ma nella mezz’ora concessagli ruba la scena al ben più noto conterraneo ed intrattiene il pubblico con giocate deliziose, tra le quali un sombrero ai danni di Hierro. Senza volerlo, un altro esordio da predestinato.

La storica doppietta al Brescia.

La doppietta al Brescia rappresenta, però, i 2/3 delle sue reti per il successivo anno e mezzo (segnerà da centrocampo in trasferta ad Empoli). Vuoi per la concorrenza spietata in attacco, o per la difficile collocazione tattica, che resterà una questione calcisticamente esistenziale per chi avrà a che fare con lui, od ancora per le comprensibili difficoltà di ambientamento al nuovo ecosistema ed al calcio nostrano, soprattutto in una società dove la proprietà nuova di zecca, smaniosa di riportare la Beneamata ai lucenti fasti del passato, non lascia tempo a chi, invece, ne avrebbe bisogno per germogliare ed, alla fine, sbocciare. Resta il fatto che tutti si dimentichino di Recoba. Sapientemente la dirigenza nerazzurra lo spedisce nella Laguna, a regalare bagliori di luce nella nebbia e risollevare un Venezia faticosamente invischiato nella lotta per non retrocedere. Novellino, allenatore dei veneziani, più per necessità che per sagace intuizione, lo posiziona alle spalle dell’unica punta Maniero concedendogli licenza di “uccidere”, senza assilli tattici o mansioni difensive. L’importante è che inventi calcio, il resto conta poco. El Chino ringrazia segnando 11 reti e smazzando assist per i compagni ogni santa domenica, rendendo reale il sogno salvezza della Serenissima. Tornato alla base, sembra il preludio alla tanto attesa fioritura, in un’Inter che, come ogni anno, si presenta ai nastri di partenza ambiziosa e vogliosa di sopraffare il destino bastardo e bianconero. In realtà, assisterà da spettatore non pagante, ma pagato, alla disfatta della straordinaria, almeno nei nomi, Inter di Lippi.

L’anno successivo Recoba diverrà uno dei protagonisti della vicenda giudiziaria nota come Passaportopoli, la quale gli costerà sei mesi di squalifica e, praticamente, tutta la stagione. Tornato arruolabile, tra dilemmi tattici (il nuovo allenatore Hector Cuper lo impiega spesso da ala per sfruttarne la propensione palla al piede e l’immensa proprietà di calcio, o forse perché rinunciare a Vieri e Ronaldo per fargli spazio sarebbe stato troppo anche per l’hombre vertical argentino) e continue noie fisiche, il tutto condito dalla proverbiale indolenza che lo caratterizza, non saranno tantissime le volte nelle quali scenderà in campo ed ancor meno quelle in cui si illuminerà per davvero. Attenzione, non verranno mai a mancare gol spettacolari (gol olimpico contro l’Empoli) o giocate che destano dal torpore di una domenica pomeriggio invernale (vedasi gol contro l’Atalanta, veronica e tiro a giro all’angolino o ancora la giocata per liberarsi dell’avversario, prima di segnare, in un Inter-Lecce terminato 6-0, oppure i dribbling ed il gol per vincere a Perugia), ma queste saranno oscurate dai dubbi prima, trasformatisi in aspre critiche e giudizi negativi poi, dal sentore di condanna definitiva per talento sciupato e strapagato. Sarà per anni il calciatore più rimunerato dalle parti di Appiano Gentile (si parlava di un contratto complessivo intorno ai 12 miliardi l’anno), coccolato da un presidente più tifoso che imprenditore, il quale, come tutti, ne riconosce i difetti, ma il cui amore spasmodico ed incondizionato prevarica sulle dovute valutazioni circa il rendimento e l’utilità di un atleta. Probabilmente sarebbe stato meglio cambiare aria, andar via.  Soprattutto per El Chino che, forse, fallita la prima occasione in una grande squadra avrebbe compreso subito che per essere un campione, così come vuole la definizione socialmente accettata, non basta il talento, ma occorrono mentalità, grinta, impegno, abnegazione. Invece si è adagiato su se stesso senza compiere il passo successivo, anche per colpa di chi glielo ha permesso. Chiedersi come sarebbe andata se avesse lasciato Milano è un gioco di congetture che, oltre a stimolare la fantasia, conduce solamente in un vicolo cieco e rammaricante.

La permanenza in nerazzurro dura fino al 2007, quando un Recoba oramai trentenne decide che è ora di chiudere quel capitolo e, dopo un anno a Torino ed una scampagnata in Grecia, fare ritorno a casa, lì dove aveva cominciato, al Danubio. Lo lascerà dopo neanche due anni per trasferirsi al Nacional, prima di smettere definitivamente nella primavera del 2016 in una partita celebrativa organizzata in suo onore.

Visto che ci siamo, fatevi del bene.

A dispetto di quanto si possa credere, il palmares di El Chino conta due scudetti (per onestà intellettuale solo uno sul campo), un paio di Coppa Italia e Supercoppa italiana, unite alla Coppa UEFA 97-98 e ad una settantina di reti messe a segno in molto meno tempo effettivo rispetto a molti altri. Nella realtà, ciò che i più vedono nel palmares di Alvaro è un costante e frustrante senso di incompiuto, che nessuna magia o prodezza balistica potranno mai cancellare. È analogo il discorso anche per quanto concerne la sua esperienza con la rappresentativa nazionale, della quale di tangibile resta ben poco, ma che lo ha portato comunque ad essere uno dei giocatori più amati nella storia del calcio uruguagio. Sull’inconsistenza e sull’incompiutezza della carriera di Alvaro una volta si è espresso Juan Sebastian Veron, dicendo: “Recoba non è stato il miglior giocatore al mondo solamente perché non lo ha voluto.” A distanza di molti anni lo stesso Recoba è tornato sull’argomento, affermando: “Non è che non l’abbia voluto, credo di aver fatto del mio meglio, capace che tutto quello che sapessi fare fosse quello. Certo non mi sono dato di più. Capace che non mi sia impegnato davvero, anche oggi continuo a chiedermi se realmente potessi fare di più o no. Chissà, magari tra qualche anno, a freddo, arriverò alla stessa conclusione di Sebastian.”

Quello che mi rimane

Credo di essermi innamorato, anzi infatuato (perché amore lo è divenuto successivamente, quando avvertii quel nostalgico senso di deficienza) di El Chino dopo un Bologna-Inter del 2003. Saranno stati l’elegante potenza e la bellezza mozzafiato (paradigma imprescindibile) dei gol da lui segnati o forse il fatto che quella partita vista alla televisione con mio padre resta uno dei momenti più nitidi e piacevoli della mia infanzia. Fatto sta che da quel giorno entrò nel novero dei miei calciatori preferiti. Innamorarsi di Recoba è stato come innamorarsi di una ragazza bellissima, indifferente perché apparentemente superiore, indolente. Ma proprio quando ti affretti ad etichettarla, per l’appunto, come ciò che sembra essere, ecco che ti sorprende con un caldo gesto di rara umanità o con un sorriso che la spoglia di quella superiorità che le avevi affibbiato. Interrogarsi ad oltranza sui perché ed i percome Alvaro abbia sostanzialmente fallito rispetto a ciò che ci si attendeva, è un giochino al quale in tanti hanno partecipato: i più romantici  lo hanno definito genio incompreso, i più pragmatici e denigratori del culto del bello ancorché inutile lo hanno catalogato come sopravvalutato, fortunato a vivere una vita che non gli sarebbe dovuta appartenere. Di sicuro, l’aver conosciuto personaggi che facevano più affidamento ai dettami tattici (come è da tradizione nella cultura calcistica del Bel Paese) che all’estro, ha fatto di lui un oggetto calcisticamente e umanamente misterioso, a maggior ragione in un calcio che stava mutando lasciando sempre meno spazio a chi della fantasia, della libertà e della spensieratezza ne faceva un dogma esistenziale, ancor prima che tecnico. A far da contorno c’è sempre stato il suo non divenire, quel mantenersi nel limbo dei predestinati talentuosi, ma mai decisivi, mai quelli sui quali avresti fatto affidamento, quelli invece che hanno sacrificato un talento straordinario sull’altare della discontinuità e della svogliatezza. Credo che i migliori aggettivi per demarcare ciò che era, e probabilmente continua ad essere, Recoba li abbia spesi sua moglie Lorena, in un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport nella primavera del 2000: “Alvaro è nella vita come su un campo di calcio, pigro e romantico. Sempre con la testa fra le nuvole, poi un colpo di fantasia che ti spiazza.

Mentre guardavo una dozzina di video tra la prima esperienza in Uruguay e poi quella all’Inter, due aggettivi su tutti dominavano il mio pensiero: solitario e pragmatico. Sarà stato il suo proverbiale modo di ciondolare per il campo eclissandosi dalla partita, risultando per la maggior parte del tempo impalpabile, ma rivedendo azioni e giocate non mi ha mai dato l’idea di trovarsi a proprio agio con i compagni. Sempre isolato, mai propositivo, timido ed introverso. Non a caso i momenti della sua carriera rimasti nitidi e luminosi nella memoria degli appassionati lo ritraggono unico protagonista dello scenario, nessun gregario, nessun dialogo con chi veste la sua stessa maglia, un continuum di soliloqui tecnici. Solo lui, la palla, gli avversari, la porta. Nient’altro. Essere stato un mago de tiro libre penso sia l’immagine più rappresentativa. In questo frangente si incastona perfettamente il pragmatismo, ossia Recoba non era un giocatore da art pour art, non è mai caduto nel cliché della bellezza ridondante e superflua, ma ogni movimento era finalizzato al passo successivo, dalla finta alla pausa, tutto era funzione di qualcos’altro, bastava solo attenderne la materializzazione.

L’ultimo ricordo che ha lasciato, neanche a dirlo, è stato uno splendido calcio di punizione al termine di un Nacional-Penarol, giocato al Parque Central. Segnare il gol decisivo al 95° minuto in uno dei derby più sentiti e più caldi del Sud America, all’età di 38 anni, è roba da El Chino. Il presidente Ache dirà: “Se a Parque Central c’è una statua di Carlos Gardel, non vedo il motivo perché non dovremmo farne una a El Chino.” Le metaforiche parole del presidente del Nacional, per quanto estremizzate, sintetizzano perfettamente ciò che è rimasto di Recoba, ossia il ricordo di un giocatore straordinario, in grado di regalare momenti di gioia ed estasi al pari di artisti acclamati, e poco male se la sua non è stata una carriera piena di successi e di gloria. Se così fosse andata chissà cosa avremmo detto.


  • Nato a Caltanissetta, classe ’94. Laureato in Economia Aziendale con un’ambiziosa ed utopistica tesi su una proposta d’introduzione del salary cap nel calcio europeo. Attualmente studente magistrale in Strategia, Management e Controllo. Nel frattempo, prova a scrivere di calcio e pallacanestro, visto che di pennellare come van Hooijdonk e tirare come Klay Thompson non se ne parla proprio. Sogna una conversazione a tavolino con Sarri, Bielsa e Popovich, meglio se accompagnata da una bottiglia di buon vino.

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