Alisson Becker: la quadratura del cerchio
Il brasiliano ha stravolto tutte le nostre concezioni sul ruolo del portiere.
La ricerca della completezza sembra ormai essere l’ossessione di qualsiasi allenatore e direttore sportivo. In un calcio in continua evoluzione non si ricercano più giocatori, per così dire, specializzati. Quello che conta è l’universalità, la capacità di saper giocare più ruoli e di saper leggere più situazioni. Il tutto è la deriva naturale di uno sport in continua evoluzione e che si gioca a ritmi sempre più veloci. Se però a centrocampo il tuttocampista è il sogno di ogni allenatore, mentre in difesa si cercano terzini in grado di fare anche i registi, il ruolo del portiere sta avendo uno sviluppo tutto suo. Con l’esplosione della nuova moda dello sweeper-keeper (il portiere-libero) gli interpreti del ruolo si sono divisi tra due estremi. Da un lato ci sono quei portieri, a là Neuer, che sono quasi più difensori aggiunti che veri e propri numeri uno. Dall’altra invece rimangono quei giocatori, sulla falsariga di Oblak e De Gea, più cristallizzati sul classico ruolo di estremo difensore, riuscendo al massimo ad integrarsi in elementari sistemi di uscita del pallone dalla difesa.
In tutto questo, nella scorsa Serie A, siamo stati i fortunati testimoni delle prodezze di uno dei primi esemplari di portiere non pienamente ascrivibile a nessuna categoria. La stagione da miglior giocatore del campionato di Alisson Becker ci ha fatto vedere un portiere in grado di fare veramente tutto, con efficacia brutale. Dal suo stile di parata mai sopra le righe, alle sue capacità palla al piede da vero brasiliano, l’estremo difensore della Seleçao ha conquistato in brevissimo tempo anche chi lo aveva accolto con scetticismo. Una partita dopo l’altra, a suon di prestazioni sontuose, si è guadagnato il posto da titolare al mondiale e un trasferimento da record in Premier League.
Ma come fa veramente Alisson Becker a far sembrare semplicissimo il ruolo più controverso e complesso di questo sport?
Il lavoro nobilita l'uomo
Gli inizi della carriera di Alisson non sono nulla di trascendentale, inutile girarci intorno. Non c’è l’epica da riscatto sociale tipica di altri campioni verdeoro. Emergono invece prepotentemente etica del lavoro e professionalità. Cresce prima nel club della sua città natale, Novo Hamburgo, il cuore dell’immigrazione tedesca di fine Ottocento, come testimonia anche il cognome Becker. Il padre lavora come operaio in una ditta di calzature, la madre è un impiegata del settore amministrativo, mentre il fratello Muriel condivide con Alisson la passione per il calcio e per la maglia con il numero uno sulle spalle. Alisson cresce in una famiglia normalissima, mostrando da subito la propensione per il pallone, ma ben lontano dalla figura del predestinato.
A 13 anni arriva comunque la chiamata dell’Internacional di Porto Alegre, sia per lui che per il fratello. E’ proprio Muriel però, di 5 anni più grande di Alisson, a conquistarsi la fiducia dei vari allenatori dei rossi di Porto Alegre: è infatti per un paio di stagioni il titolare tra i pali dell’Internacional, con il fratello a giocarsi il posto da terzo o secondo portiere. In tantissime interviste lo stesso Alisson definisce la sana competizione con il fratello come la vera spinta che gli ha permesso costantemente di migliorarsi nei suoi primi anni da professionista. Esordisce da titolare in una partita delicatissima. Il 12 ottobre 2014 in casa contro il Fluminense, in una sfida che finisce 2-1, vinta dall’Internacional grazie anche ad un paio di grandi interventi di Alisson, e alla classe di un incompiuto come Andrès D’Alessandro. Da lì in poi nessuno gli toglierà più la titolarità. Almeno fino al trasferimento a Roma.
Se l’approdo in Europa è per ogni giocatore sudamericano senza dubbio la scelta più difficile della carriera, Alisson non è da meno. Nonostante le rassicurazioni di Cafù (contattato da Alisson dopo l’offerta dei giallorossi), il primo anno a Roma è il più difficile della sua avventura da professionista. Complice anche la grande stagione di Wojciech Szczesny, Alisson è “il portiere delle coppe”. Riesce a mettere a referto 15 presenze tra Champions League e Coppa Italia, senza però mai esordire in campionato. Da quella stagione dice, in un intervista di un paio di mesi fa, di aver imparato l’arte del saper aspettare. “E’ stato un anno di attesa. Mi aspettavo di giocare di più, ma non ho mollato in nessun momento. Mi sono allenato forte”
La stagione di purgatorio con Spalletti lo prepara però perfettamente all’arrivo di Eusebio di Francesco sulla panchina giallorossa. Il tecnico romano vede in Alisson caratteristiche che combaciano perfettamente con la sua idea di Roma. In primis una capacità di calcio non comune (per un numero 1), seguita da letture difensive da moderno sweeper-keeper. Il mix perfetto per il portiere di una squadra che fa della velocità in transizione e della difesa alta le chiavi di volta del proprio gioco. Nel giudizio complessivamente più che positivo che diamo alla passata stagione della Roma, ad Alisson va più che una semplice nota di merito. 15 clean sheets in 34 presenze, una percentuale del 79% di tiri in porta parati e una media di 2,8 parate a partita: sarebbero numeri monstre anche per il più esperto e navigato portiere del campionato. Figuriamoci per uno alla prima stagione da titolare in Serie A.
Più che un semplice portiere
Ciò che colpisce di più di Alisson è senza dubbio la completezza. Il numero uno della Seleçao rappresenta sia l’evoluzione della specie sia la continuità. La modernità della sua interpretazione del ruolo è tutta racchiusa nella sua abilità coi piedi: i lanci millimetrici dalla propria area verso i compagni sono qualcosa di ordinaria amministrazione per il portiere della Roma (con una precisione dell’83%, la più alta del campionato), mentre la confidenza che ha con il pallone si esprime nella sua capacità di giocare quasi come un libero aggiunto. Nell’intero arco del campionato ha effettuato 41 chiusure alle spalle della propria difesa, a distanza siderale dal secondo, Reina (fermo a 20). Grazie ad Alisson anche in Serie A abbiamo finalmente potuto ammirare uno sweeper-keeper completo, capace di essere allo stesso tempo in grado di controllare lo spazio alle spalle della difesa in maniera quasi visionaria e di essere il primo tassello della manovra offensiva. E’ stato proprio l’aver potuto disporre di un portiere fenomenale nel controllare enormi porzioni di campo, ciò che ha consentito a Di Francesco di modellare la sua Roma come una squadra in grado di schiacciare qualsiasi avversario difendendo con facilità a quasi 50 metri dalla propria porta (ne sa qualcosa il Barcellona).
Alisson però è molto più di questo. Non si tratta solo di un interprete moderno del ruolo, ma anche di uno dei portieri più classici (tecnicamente e stilisticamente parlando) del panorama calcistico. Il suo stile di parata semplice e pulito è lontano dalla spettacolarità ricercata da molti dei suoi colleghi. Quello che salta agli occhi invece è come Alisson sia un maestro del posizionamento: la capacità di leggere in anticipo le intenzioni dell’avversario sfiora quasi il soprannaturale. Sia in questa parata su tiro di Bonucci sia in questa su Icardi, concentrandosi sul portiere si nota come, grazie ad un piccolo saltello sulle gambe, riesca ad essere in movimento appena un attimo prima che parta il tiro. I suoi riflessi fuori dal comune fanno poi il resto. Per Alisson il tuffo non sembra quasi essere una risorsa, ma piuttosto uno strumento di last resort, una sorta di ultima spiaggia, per rimediare ad un suo errore o per interventi al limite della sua comfort zone, come su questo colpo di testa contro il Bologna.
Doppia parata contro la Fiorentina.
Tra tutti i paragoni con i grandi portieri del recente passato che sono piovuti su Alisson (da Zoff a Neuer, passando per Buffon), quello più calzante è proprio quello indicato dallo stesso Alisson, con l’uomo dei rigori di Pasadena, Claudio Taffarel. Il portiere del Liverpool condivide con il connazionale, peraltro già suo preparatore all’Internacional e in Nazionale, lo spiccato senso della posizione e una capacità di concentrazione fuori dal comune, una qualità spesso poco considerata ad alti livelli. Nella partita di andata contro l’Atletico Madrid ad esempio la Roma è stata tenuta in vita quasi esclusivamente dai suoi interventi a un ritmo difficilmente sostenibile per chiunque nell’arco di 90 minuti, con tanto di riflesso al 92esimo su Saul. Spesso ci si dimentica come per un portiere sia sufficiente una minima distrazione per trasformare una buona prova in una pessima. Di Alisson è difficile ricordarsi anche solo un singolo errore su un gol subito, a testimonianza di un campionato di eccellenza disputato con continuità massima.
Il portiere del futuro
Il trasferimento per 75 milioni a Liverpool, sponda Reds, si inserisce in un mercato (quello di Premier League), con prezzi inflazionati già da un paio d’anni. Del resto quando incassi più di un miliardo di euro di euro dai diritti tv, non spenderli sarebbe da maleducati. Tra tutti i trasferimenti record in ruoli da sempre meno "costosi", i milioni spesi per Alisson non rientrano nella categoria delle spese folli. Trovo anzi quasi impossibile mettere un qualsiasi prezzo di cartellino per un giocatore del tutto unico nel suo ruolo. Non si può chiedere una cifra realistica per un portiere di 26 anni (con ampi margini di miglioramento) in grado di essere allo stesso tempo due giocatori diversi (il portiere e il libero) in uno.
Il miracolo di Monchi (e prima di lui di Sabatini), comunque rimane. L’aver valorizzato in appena un anno di titolarità un giocatore arrivato tra lo scetticismo che di solito riserviamo ai portieri sudamericani non è cosa da poco. Risultato: una plusvalenza di quasi 70 milioni, che consentirà alla Roma di completare la profondità della rosa per la stagione su più fronti che si prospetta. A braccetto con il successo finanziario del trasferimento rimane comunque qualche rimpianto. Il rimpianto per i tifosi romanisti, che dovranno tornare a preoccuparsi delle prestazioni del proprio numero uno. Il rimpianto, per tutti i tifosi in generale, di non essere riusciti a trattenere in Serie A un giocatore unico nel suo genere. Il rimpianto di non poter più ammirare, in Italia, il portiere del futuro.
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