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, 18 Giugno 2018

L'uomo dei sogni messicani e degli incubi tedeschi


Quando Juan Carlos Osorio aveva detto “possiamo battere la Germania”, il mondo l’aveva un po’ presa a ridere, ma il commissario tecnico del Messico è proprio quel genere di tipo che, se non lo conosci bene, rischi di non prendere sul serio.


Quando dice una cosa, quando prova a condurti pazientemente ma con una certa determinazione attraverso un suo ragionamento, che esiste e si è sviluppato solo nella sua testa e a quel modo che è esclusivamente suo, prima devi affrontare quell’inevitabile subdolo senso di smarrimento, tipico di chi si trova a percorrere sentieri molto poco esplorati. Il colombiano Juan Carlos Osorio ha un modo tutto suo di vedere le cose, a cui non puoi essere abituato, e che rischia di mettere in crisi anche quelle idee e quelle conclusioni che avevi dato per certe. Ecco, tendenzialmente non sei pronto e non hai voglia di incamminarti per i suoi sentieri e di giungere proprio dove lui ti vuole portare. Dunque non prenderlo sul serio può essere un rifugio, per facilitarti le cose. Anche perché qualche settimana prima aveva anche detto “noi crediamo di poter arrivare in finale. Come sportivi e come uomini è nostro diritto crederci, perché stiamo lavorando moltissimo per raggiungere questo obiettivo”, e allora non prenderlo sul serio diventa ancora più facile.

Però poi arriva una domenica pomeriggio di metà giugno un po’ dolente, si gioca Germania-Messico, e sei costretto a renderti conto che sei tu a non averci capito un cazzo, perché lui non solo diceva tremendamente sul serio, ma aveva pure le sue sacrosante ragioni per dirlo. I campioni del mondo in carica imprigionati in un terribile e inimmaginabile stato d’impotenza. Quella che ad alcuni sembrava la macchina perfetta costruita da Joachim Löw, ridotta quasi fosse una carretta cigolante. È servita pure la benedizione della fortuna, di due legni, su una punizione di Kroos e su un fendente micidiale di Brandt, come ogni impresa straordinaria reclama, ma il risultato è giunto grazie al dominio, più che tattico, mi spingerei a definire addirittura concettuale della squadra messicana sulla partita.

Questo tipo, questo Juan Carlos Osorio, non lo conoscevo granché bene e, ci scommetterei, non lo conoscevano granché molti di voi. Nei primi 5 minuti di gara di Germania-Messico ci sono state due azioni perfettamente identiche dei tedeschi; palla aperta per Kimmich sulla destra, tocco di prima per l’inserimento di un tedesco alle spalle del terzino sinistro avversario (a configurarsi come il vertice di un immaginario triangolo), conseguente situazione di pericolo per la difesa messicana. Le telecamere hanno inquadrato proprio lui, il nostro Osorio, mentre allungava il suo braccio destro dietro la schiena, rivolto al suo terzino sinistro Gallardo. Davanti ai piedi aveva un taccuino aperto, con a fianco una penna blu e una rossa. Non ricordo un’altra giocata simile riuscita ai tedeschi in tutta la partita. Lì ho cominciato a conoscerlo meglio.

Ha giocato a calcio nel Deportivo Pereira, in Colombia, fino a 26 anni. Vittima di un infortunio, ha dovuto smettere precocemente. Di abbandonare il calcio, però, non gli è passato neanche per l’anticamera del cervello. Si è trasferito negli Stati Uniti e non ci ha messo molto per convincersi che il suo futuro e il suo destino coincidevano con il mestiere dell’allenatore. Si trasferì allora in Inghilterra. A Liverpool prese a spiare gli allenamenti sia dei reds che dell’Everton. La sua convinzione divenne cieca determinazione. Tanto che presto riuscì ad entrare nello staff del Manchester City, inizialmente come preparatore atletico. Passo dopo passo, incontro dopo incontro, libro dopo libro, campo dopo campo, alla fine è diventato allenatore vero. Prima in Colombia, poi negli Usa, poi di nuovo in Colombia, passando dunque per il San Paolo e arrivando finalmente alla panchina del Messico. La sua originalità, diciamo pure la sua stranezza, si estrinseca anche nella metodologia e nelle pratiche di allenamento, in cui pare non abbia alcuna voglia di fare a meno della palla, in nessun caso. Per questo gli hanno affibbiato il soprannome di Recreacionista. Un paio di anni fa ha dichiarato di ritenere “el Loco” Bielsa il miglior allenatore del mondo, motivando così la cosa: “per quello che ho avuto modo di vedere e di ascoltare è un uomo unico, straordinario. Speriamo di ottenere quello che Bielsa ha ottenuto nel calcio cileno e che continua, come l'intensità, la mentalità, il gioco, uguale contro qualsiasi avversario. Credo sia qualcosa che possiamo contribuire a dare anche al calcio messicano”.

In Osorio il concetto della mentalità e del gioco uguale contro ogni avversario, parrebbe confliggere con una sua certa tendenza a modificare uomini, talvolta schemi di gioco, talvolta anche ruolo dei suoi calciatori, in relazione all’impegno e all’avversario da affrontare. Tanto che ha stabilito una sorta di bizzarro record, cambiando formazione esattamente 45 volte in 45 partite. In questo ha dichiarato di riferirsi a presunti insegnamenti tratti da Ferguson, discutendo di calcio con lui ai tempi del suo avventuroso e romantico apprendistato nel Inghilterra. Eppure in Messico questo specifico aspetto del suo operato non è neanche particolarmente ben visto, al punto che non mancano i suoi detrattori, per quanto risulta incredibile e addirittura paradossale pensarci adesso.

Un suo connazionale, Jorge Andrés Bermúdez Hernández, gli ha dedicato un libro, La libreta de Osorio, a cui lui stesso ha collaborato e in cui si cerca di spiegare perché Juan Carlos Osorio sia un tecnico differente, assolutamente unico nel suo genere. Ho visto un’intervista all’autore, in cui egli batteva appunto su questo concetto dell’allenatore differente, confesso però di non essere riuscito a comprendere dove egli esattamente individuasse e volesse far riconoscere questa differenza.

La bella intervista dei ragazzi di mondofutbol.


Un po’ perché il nostro autore mi pare si tenga assai sul generico, un po’ perché, come dice qualcuno che l’allenatore lo fa a discreti livelli dalle nostre parti, nel calcio quando si eccede nell’approccio teorico e nella ricerca dell’appiglio filosofico ad ogni costo, si rischia di perdere un po’ il bandolo della matassa. Conviene dunque tornare a guardare il campo, ritornare a Germania-Messico, per capire davvero chi è Juan Carlos Osorio allenatore, e come è stato possibile per il suo Messico compiere l’impresa.

La formazione iniziale del Messico era stata universalmente disegnata come un 4-3-3, in cui il chicharito Hernandez avrebbe dovuto essere supportato a destra da Vela e dall’altro lato da Lozano. In campo è apparso chiaro come, in realtà, la squadra difensivamente si schierava con un raffinato 4-4-1-1, in cui Vela si accentrava per andare a coprire la posizione tra le linee, dietro Hernandez, Layun si allargava a destra, con Lozano che si disimpegnava a sinistra. Il caso di Layun è un caso davvero particolare, perché si tratta di un calciatore che gli addetti ai lavori prevedevano avrebbe ricoperto il ruolo di interno destro di centrocampo. Si tratta di un vero e proprio jolly, un calciatore polivalente, cui Osorio si azzarda ad affidare i compiti tattici e tecnici più disparati, a seconda di come ha intenzione di plasmare la sua squadra in relazione all’esigenze della gara e delle problematiche poste dall’avversario. Egli può giocare a destra, a sinistra, esterno alto, esterno basso. Stavolta è stato schierato a destra, con il compito di lanciarsi a capofitto su quella fascia, ogni qual volta ci fosse stata la minima occasione di ripartenza.

Prima parlavo di dominio addirittura concettuale del gioco da parte del Messico, non potendolo configurare ovviamente come dominio tecnico. Vale la pena ora approfondire questo tema. Vale la pena spiegare che il Messico è riuscito a far fare alla Germania esattamente ciò che il Messico voleva. D’altro canto, esattamente ciò che il Messico voleva fare, l’ha fatto. La chiave interpretativa è consistita nell’individuazione della debolezza nel meccanismo avversario. La coppia di centrocampo Kroos-Khedira, per le caratteristiche del primo e l’attuale affannoso passo del secondo, già evidenziato quest’anno nel corso della sua stagione alla Juve, non garantiva al centro adeguata protezione alla difesa, scarsamente supportata anche ai lati dall’inefficiente lavoro specifico sia di Draxler che di Müller. In considerazione di ciò il Messico si raccoglieva, come quegli animali che per colpire la preda l’attirano nel proprio territorio, facendo mostra di una propria illusoria vulnerabilità, e poi, proprio quando sono sotto attacco, sferrano il proprio colpo micidiale. Tale atteggiamento non si verificava solo quando ad essere in possesso di palla erano gli avversari, ma anche quando la palla era in proprio possesso. I messicani quasi chiamavano il pressing avversario a salire, facendosi aggredire nella zona per se stessi più pericolosa del campo, per poi uscirne magari con un lancio lungo, confidando nella corsa di Lozano o di Layun, nella prontezza di Vela e nell’agilità di Hernandez. Gli attacchi più pericolosi erano portati quasi sempre da 3 o 4 uomini. Questi attacchi raramente erano condotti attraverso il fraseggio, ma sempre sorretti dalla corsa e da azioni personali, in cui si produceva soprattutto Lozano.

Il gol della storia.


Il tema della partita è apparso chiaro fin dai primi minuti e, prima di subire il gol decisivo, la Germania aveva attraversato almeno 3 situazioni di concretissimo pericolo davanti alla propria porta. Senza che Löw facesse niente per provare a porre rimedio ed evitare quello che risultava evidente stesse per succedere, mostrando una convinzione quasi fideistica nel suo modello e nella sua struttura di gioco tanto consolidati e portatori dei recenti successi teutonici. Questa volta, invece, ha avuto ragione Osorio. Che nel secondo tempo, quando i suoi cominciavano ad essere sfiancati dalle tante corse e dalla dispendiosissima richiesta di copertura di così larghe zone del campo, ha prima tolto Vela per Alvarez, un centrocampista difensivo, spostando Herrera un po’ più avanti. Poi ha tolto il match winner Lozano, inserendo Jimenez. Infine, quando la pressione tedesca sembrava davvero potere far danni, ha inserito il venerabile veterano Rafa Marquez, nel ruolo di centrocampista, arretrando di nuovo Herrera e mettendo anche Alvarez sulla linea dei difensori. Tutto ha funzionato come doveva funzionare e tutto è andato nel verso voluto. Sicuramente anche perché, oltre che un po’ supponente, questa Germania è sembrata un po’ giù di corda e in difetto di energie. Pure perché Ochoa ha fatto un miracolo su una magistrale punizione di Kroos, deviando il pallone sulla traversa. Poi anche perché Brandt, da poco subentrato a Werner, ha stampato un destro degno di miglior sorte sul palo.

Per vincere una partita di calcio, pure quando tutto va esattamente come l’avevi predisposto, c’è comunque bisogno anche di questo. Specie se affronti i campioni del mondo della Germania e tu alleni il Messico che, pur con tutta la credibilità che Juan Carlos ormai ha acquisito e che nessuno ora gli può togliere, possiamo continuare decisamente a credere che non arriverà in finale. Ora, però, Juan Carlos lo conosciamo meglio e ora cominciamo pure a dubitare seriamente sulle possibilità della Germania.


 

  • La Redazione di Sportellate è un miscuglio di persone che provano a scrivere di sport senza mai tirarsi indietro.

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