7 Maggio 2018
4 minuti

Cosa dobbiamo aspettarci dal 2018 di Novak Djokovic?


Un recupero di dritto sul lato destro del campo, uno dei tanti che gli abbiamo visto fare in carriera, con il piede che scivola verso l’esterno. Murray, l’avversario di sempre, che affossa in rete il rovescio incrociato. Butta istintivamente la racchetta alle spalle, Nole, e crolla sulla terra rossa parigina. Sporca la maglietta, ma nemmeno troppo, dato che quella con cui ha scelto di giocare quel torneo è più o meno dello stesso colore. Gli occhi puntano verso il cielo. In quei 5 secondi ha il tempo necessario per vedere la propria anima di tennista ascendere all’Olimpo delle Leggende, quello stesso cielo che ora sta solo osservando da terra. “Ce l’hai fatta Novak” sembra ripetersi “ora sarai ricordato in eterno”.


Il 5 giugno 2016 Novak Djokovic si aggiudicava così il Roland Garros, ovvero il torneo che nella sua sfavillante carriera si avvicinasse di più al concetto di “bestia nera”, riuscendo così a chiudere il “Career Grand Slam”, termine con cui gli inglesi definiscono la vittoria per almeno una volta di Australian Open, Wimbledon, US Open e Roland Garros, il più difficile. Un’impresa che, prima di lui, era riuscita soltanto ad altri 7 tennisti nella storia.

Per il Djoker serbo il Roland Garros aveva rappresentato un’autentica “ultima fatica”. Ci aveva provato in passato, aveva perso, ci aveva sbattuto la testa, ma sempre uscendone sconfitto in battaglie epiche, come quella dell’anno precedente contro Stan Wawrinka. Per questo è bello immaginare che nel momento in cui ha potuto finalmente sollevare al cielo il trofeo, con il sorriso stampato in volto, Djokovic si sia sentito più o meno come Ercole dopo aver compiuto l’ultima delle sue dodici fatiche, accarezzando l’idea di essere, al pari dell’eroe greco, un semidio. Unica differenza: Ercole, terminate le fatiche, espiò definitivamente le proprie colpe e si potè godere la propria vita, mentre Nole ci ha dimostrato che anche gli Dei possono cadere.

È caduto Djokovic, e lo ha fatto nel momento in cui meno ce lo si aspettava. Per anni guardarlo giocare è stata un’autentica meraviglia, ma nel momento in cui ha raggiunto il vero apice della propria carriera, qualcosa in quel meccanismo così perfetto si è inceppato, e il serbo, ad oggi, non si è ancora ripreso.

Premessa: capire le ragioni della crisi nel tennis di Djokovic è impresa ardua e c’è un motivo. Il campione venuto fuori dalla guerra della sua Belgrado è sembrato per anni una vera e propria macchina. Su ogni superficie, contro ogni avversario, con qualsiasi condizione atmosferica, Novak riusciva a tenere un livello altissimo in ogni scambio sfruttando la sua profondità di palla e la velocità negli spostamenti laterali. Ma in particolar modo impressionava la sua tenuta mentale, la capacità di giocare con la massima qualità ogni punto decisivo all’interno del match. Per questo, quando Djokovic ha iniziato a giocare male e a inanellare risultati negativi, molti hanno fatto fatica a crederci, semplicemente perché non sembrava possibile potesse accadere a lui.

Partendo da questa premessa la crisi di Djokovic potrebbe essere definita come una “crisi in due tempi”. Il primo tempo di questa crisi è figlio del naturale appagamento, del raggiungimento di ogni obiettivo possibile e del rilassamento conseguente alla conquista del Career Grand Slam, che lo trascina stancamente alla fine del 2016 dopo aver perso al terzo turno a Wimbledon contro Sam Querrey e in finale agli US Open contro Wawrinka. Il secondo tempo della crisi (ancora in atto) è invece più preoccupante, perché è un attacco sistemico al giocatore serbo. Per la prima volta in carriera il fisico sembra chiedergli una sosta. Il gomito destro comincia a fare male e il gioco di Nole ne risente, in particolare in uscita dal servizio, dove fatica ad essere efficace. Perde al secondo turno agli Australian Open contro l’uzbeko Denis Istomin in quel momento fuori dalla top 100, disputa poi la stagione sulla terra alternando prestazioni convincenti a cadute inspiegabili, ma senza portare a casa alcun titolo, per poi ritirarsi nei quarti di finale di Wimbledon. Il gomito fa sempre più male. Così non può continuare, e infatti Djokovic dice “basta”, si ferma per 6 mesi con il fermo obiettivo di ritrovare sé stesso e tornare il numero 1 al mondo.

(Photo by Julian Finney/Getty Images)

Il 2018 è dunque considerato da molti un anno chiave per la carriera dell’attuale numero 12 del mondo, una sorta di “ultima chiamata” per capire e far capire se Nole può tornare il dominatore di un tempo o se debba abbandonare l’idea di riprendersi lo scettro. I segnali di inizio anno sono contrastanti: da una parte ci sono i risultati, che restano piuttosto negativi (eliminato agli ottavi agli Australian Open e fuori due volte al primo turno sul cemento americano), dall’altra parte ci sono gli occhi con cui lo abbiamo visto giocare. E gli occhi del serbo trasmettono finalmente la voglia di uscire da questo momento, una determinazione che lo scorso anno raramente si era vista. Inoltre ha dichiarato recentemente di non sentire più alcun tipo di dolore al gomito, grazie anche alla nuova tecnica di servizio. Le risposte sull’efficacia di questi aggiustamenti passano da Madrid (dove sta giocando in questi giorni) e dai tornei successivi.

Se riuscirà a superare questa fase della sua carriera Nole avrà imparato una lezione, che altre leggende come Federer e Nadal hanno già appreso a seguito delle loro personali crisi: nel gioco di oggi il prototipo del tennista vincente è un sistema metastabile, il cui principio cardine è la trasformazione, o meglio l’evoluzione, per scelta o per necessità. Cambiare dunque, è condizione necessaria per continuare a vincere. Anche per uno come Novak Djokovic.


 

  • Nato a Cremona il 23/11/1996. Conserva nell'armadio i pantaloncini del suo esordio in Serie D allo Stadio Euganeo di Padova. Non sa scegliere tra la parte sinistra e quella destra del proprio cervello e nemmeno quale sia il suo sport preferito. È fermamente convinto che il Paradiso sia un'Olimpiade che dura in eterno.

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