La Manu sinistra di Dio
Un libro. Chi di voi lo conosce presumibilmente l’avrà cercato in libreria dopo aver amato la serie TV “Dexter”, che è tratta proprio da quel romanzo. Ma ciò che più colpisce di quel libro è il titolo: “La mano sinistra di Dio”. Evocativo, quasi profetico. Spesso capita di interrogarci su quale aspetto fisico possa avere Dio, ma quasi sempre ci si ritrova senza una risposta. C’è però un’eccezione, quella mano sinistra. Perché per chiunque abbia mai visto una partita di basket quella mano non puó che essere una specifica; è argentina, capace di ogni cosa ed è stata donata ad un uomo che all’anagrafe risponde al nome di Emanuel David Ginobili.
Con il protagonista di quel libro e della serie ha pure qualche tratto in comune. Dexter è, in apparenza, un tranquillo poliziotto che sotto la facciata nasconde la propria indole da serial killer, uomo spietato sì, ma che agisce sempre seguendo il proprio codice morale. Così è Manu (questo il soprannome con il quale tutti lo identificano) quando si allaccia le scarpe e si muove sul parquet; un’apparenza fatta di eleganza, stepback, eurostep e pennellate mancine, sotto la quale si cela una freddezza fuori dal comune, “da killer” per l’appunto. Quella incredibile capacità di essere lucido nei momenti importanti, nei possessi decisivi e l’impressione che sul campo tutto possa e debba finire nel modo in cui l’ha deciso lui, seguendo il proprio codice. Il Codice di Manu.
Solitamente quando si decide di narrare le gesta di un uomo si parte elencando subito i suoi trofei. Lo si fa sin dall’antichità. Ricordi di terza media e di quei proemi che tutti siamo stati obbligati ad imparare a memoria. Autori come Omero e Virgilio ci tengono che dei loro eroi il lettore sappia tutto fin dalle prime. Non vale per Manu. No, perché per lui non tutto è sempre stato così facile e per questo partire dalle vittorie sarebbe terribilmente riduttivo. Perché l’argentino è molto di più di una lista di titoli, è un percorso di vita sempre in movimento, un ostacolista con gli occhi sempre puntati in avanti ed il corpo sempre pronto a saltare un’altra volta oltre le difficoltà.
Se non ce la possono fare i soli titoli a descrivere il giocatore e l’uomo che è Manu Ginobili forse però ci possono riuscire alcuni numeri. Io proverei con tre: 57, 2004, 42. “With the 57th pick in the 1999 NBA draft the San Antonio Spurs select Manu Ginobili”. Spesso le frasi più importanti le sentono poche persone, passano inosservate ma cambiano il destino di tanti, e in questo caso di un’intera lega. Sì, anche coloro che masticano poco inglese l’hanno capito. L’amore eterno tra i neroargento e il loro numero 20 comincia così, nel silenzio generale di una stanza di Washington. Una storia d’amore passionale, estrema, una storia che solo un uomo nato a Bahia Blanca, cresciuto tra un arresto e tiro col papà allenatore e un tuffo nell’Oceano, può regalare.
Non tutto è stato così facile. A vederlo oggi la chiamata di Manu alla 57 resta uno degli “Steal of the draft” (così amano chiamarlo gli americani) più importanti della storia, forse il più grande in assoluto. Ma il nostro racconto si era interrotto a quel 30 giugno 1999, giorno del draft. Ed è qui che arriva l’incongruenza. Recuperiamo le statistiche: Manu Ginobili -> Esordio NBA -> 29 ottobre 2002 -> San Antonio Spurs 87-82 Los Angeles Lakers. E in quei tre anni? Dove sarà finito l’argentino? Alla conquista del Vecchio Continente.
Europa dunque, ma dove? Beh qui vengono in aiuto le origini e la storia, e quella degli antenati di Manu è una storia fatta di immigrazione. Nelle Marche ad oggi ci sono 15 famiglie che di cognome fanno Ginobili, all’inizio del secolo tra questi c’erano sicuramente anche i nonni di Manu, poi partiti per cercare fortuna in Argentina all’interno di quell’enorme flusso migratorio che investì l’Italia. Ma lui, che come avrete capito è un uomo d’onore come pochi, probabilmente questo “debito” lo ha sentito nel momento della decisione di compiere, nella direzione opposta, lo stesso percorso che il nonno aveva compiuto anni prima. Di sole e di mare però un ragazzo nato a Bahia Blanca non può proprio fare a meno. Fortunatamente l’Italia di città con queste caratteristiche abbonda, ed infatti è proprio in una di queste città che Manu decide di portare il proprio talento. Il volo su cui si imbarca dall’Argentina (immagino dopo vari scali) atterra a Reggio Calabria.
Come ce lo vedete un futuro pluricampione NBA in una squadra che milita in A2? Strano? Beh è esattamente quello che succede a Ginobili con la Viola. Si crea un legame fantastico con la città e i suoi tifosi, che riconoscono l’enorme talento (e come biasimarli?) di quel mago argentino che sembra arrivare da un altro pianeta. I risultati ottenuti non sono che le conseguenze di tutto questo. Promozione in A1 e quinto posto al primo anno nella massima serie gli valgono la chiamata di una squadra leggendaria del panorama cestistico italiano come la Virtus Bologna. A Bologna, come un moderno Re Mida, Ginobili trasforma in trofei tutto quello che tocca, all’interno di un contesto di squadra eccezionale riesce ad inserire le proprie pennellate e le proprie variazioni sullo spartito, un’annata costellata di giocate da artista vero e proprio. Anche qui i risultati sono solo una naturale conseguenza. Fatto sta che la sala trofei della Virtus al termine di quella stagione deve fare spazio a Coppa Italia, Campionato Italiano ed Eurolega. A Bologna resta un altro anno, ma Manu sa benissimo che è arrivato il momento di attraversare un’altra volta quell’oceano. Vede il mondo a stelle e strisce e respira già l’aria di San Antonio. Stop. Fermi tutti.
A questo punto nel 2002 il tempo del basket si ferma per un attimo, sta per cambiare tutto. Ad un ipotetico tavolo rotondo Manu è seduto con altre tre persone, la prima ha i capelli bianchi e lo sguardo da spia, la seconda un sorriso piuttosto restio a mostrarsi e un talento fuori misura mentre la terza uno spiccato accento francese. Sono rispettivamente Gregg Popovich, Tim Duncan e Tony Parker. I 4 si guardano, immagino non saranno servite troppe parole, ma fanno una scelta decisiva, decidono di guardare tutti nella stessa direzione. In quel momento nascono degli Spurs devastanti che vincono 4 titoli (2003, 2005, 2007, 2014) e che da 21 anni consecutivi conquistano i playoff.
Ho scelto però il 2004 come anno chiave per descrivere la carriera di Ginobili perché in quell’anno riesce laddove non è mai riuscito nessuno. Non accade in America, bensì in Grecia. Si tengono infatti lì le Olimpiadi. Nel basket, in particolare dal 1992 (l’anno del Dream Team a Barcellona), lo schema dei Giochi Olimpici è più o meno questo: si giocano un bel po’ di partite, la gente si diverte e alla fine vincono gli Stati Uniti. C’è una sola eccezione, quel 2004. E da chi potevano essere battuti se non dall’Argentina di Manu, che affiancato da Scola, Nocioni e Delfino gioca una semifinale storica, sconfigge 89-81 i favoritissimi statunitensi e in finale sconfigge l’Italia vincendo l’Olimpiade e facendo letteralmente impazzire il suo popolo.
Di giocate negli anni ne ha regalate tante e chiunque ami almeno un pochino la pallacanestro ha una paura viscerale dell’istante in cui il pittore di Bahia Blanca deciderà di slacciare le scarpe per l’ultima volta; si temeva che quel momento fosse giunto lo scorso maggio, quell’uscita prematura a pochi minuti dalla fine nella gara 4 della finale di Conference contro gli Warriors, tra gli applausi del suo pubblico, per molti aveva il profumo dell’ultimo addio. E invece, Manu, così come è solito fare sul campo, ha deciso un’altra volta di saltare l’ostacolo e di sorprenderli tutti, annunciando di voler giocare ancora un’altra stagione. Quest’anno gli avversari da cui sono stati sconfitti i suoi Spurs e le paure dei tifosi sono esattamente le stesse, Steve Kerr lo ha esortato a continuare, paragonandolo a Roger Federer, simile per talento, tenacia e voglia di vincere, e se l’argentino accetterà il consiglio l’anno prossimo le primavere saranno 42. Ma a questo punto permettetemi un sogno. Tra qualche anno, quando la nostra paura sarà diventata realtà e Manu avrà detto basta, vorrei che tutti insieme ci trovassimo, che guardassimo una clip con tutte le sue migliori giocate e ci rendessimo conto di quanto fortunati siamo ad aver potuto ammirare un giocatore così meraviglioso. E magari tra di noi ci sarà pure l’autore del libro e deciderà di cambiare quel titolo. “La Manu sinistra di Dio".
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