L'eredità di Wenger
Pochi giorni fa Arsène Wenger ha annunciato che lascerà l'Arsenal a fine stagione, dopo ventidue anni al timone della squadra di North London. Che sfida si prospetta per il suo successore? E soprattutto, che eredità ci lascia la sua ultraventennale esperienza sulla panchina dei Gunners?
Ventidue anni fa in Giappone viene lanciata la nuova Nintendo 64. Ventidue anni fa Umberto Bossi presenta per la prima volta la Lega Nord alle elezioni politiche come partito autonomo e Bill Clinton si guadagna il secondo mandato come presidente degli Stati Uniti. E sempre ventidue anni fa, il 30 settembre 1996 ad essere precisi, Arsène Wenger viene presentato, con una scarna conferenza stampa ad Highbury, come nuovo manager dell’Arsenal. Fa quasi impressione pensare a come nel 1996 si vivesse letteralmente in un altro mondo rispetto alla realtà in cui siamo immersi oggi. Eppure a fianco delle immutabili leggi della fisica e allo scorrere del tempo, immutabile è rimasto, seduto sulla sua panchina, Arsène Wenger. Nel calcio di oggi, un calcio che cambia ormai nel giro di pochi mesi e in cui si parla di cicli di allenatori di non più di tre anni, sembra più che anacronistico pensare ad un manager che rimane sulla stessa panchina due decenni. Nel nord di Londra i venti di cambiamento hanno iniziato invece a soffiare inesorabili solamente da un paio di anni, dopo il campionato perso a favore del Leicester, quella Premier che doveva essere dei Gunners. E questo solo perché Arsene Wenger non è un allenatore come gli altri.
“Wenger who?”
Quando a fine settembre 1996 David Dein, all'epoca chairman dell’Arsenal, annuncia l’arrivo di Wenger sulla panchina di Highbury la reazione dei tabloid inglesi è un iconico “Wenger who?”. E questo non perché l’alsaziano fosse sconosciuto dall’ altra parte della Manica (1 Ligue 1 e una coppa di Francia con il Monaco tra l’88 e il ‘91), ma più che altro perché il tecnico di Strasburgo non era assolutamente la prima scelta. I tifosi dei Gunners sognavano addirittura Johan Cruijff, ma alla fine la spuntò Gerard Houllier, all’epoca direttore tecnico della Federcalcio francese, che convinse Dein a puntare tutto su Wenger.
La portata dell’impatto che l’arrivo di Wenger ha sul calcio inglese non è facilmente quantificabile. Se oggi possiamo pensare al tipico allenatore british, con un ruolo manageriale ben definito nella gestione del club, lo si deve soprattutto a lui. In primis la sua importanza è centrale nel processo di costruzione della squadra, bypassando il ruolo del direttore sportivo. Già nel 1996 ad esempio, ben prima di firmare il contratto definitivo con l’Arsenal, consiglia a Dein l’acquisto di un suo fedelissimo come Rèmi Garde e di un giovane prospetto di nome Patrick Vieira. La trasformazione dal modesto “Boring, boring Arsenal” di inizio anni novanta alla squadra che conosciamo oggi avviene in una frazione di secondo. Il suo occhio verso i campionati esteri (francese e olandese in particolare) in un epoca in cui in Premier League si guarda sopratutto al mercato interno, lo porta ad assemblare già nel 1998 un squadra da double (Campionato ed FA Cup). Da Emmanuel Petit a Marc Overmars, fino a Nicolas Anelka e a un rinato Dennis Bergkamp quella squadra è il prodromo perfetto per l’Arsenal degli Invincibili. A detta di Gary Neville quei giocatori, e non quelli del 2003, erano “I migliori contro cui abbia mai giocato, meglio anche del Chelsea di Mourinho”.
La squadra degli Invincibles del 2003 poi è il capolavoro del Wenger manager a tutto tondo. Con le cessioni di Marc Overmars al Barcellona per 43 milioni di sterline e di Nicolàs Anelka al Real Madrid per 35 milioni (dopo averlo acquistato per poco più di 700 mila sterline) costruisce una squadra da record, a costi irrisori: dall’Halmstads arriva Freddie Ljungberg (2 milioni), dal Tottenham Sol Campbell (costo zero), promuove Ashley Cole dalla primavera, ma sopratutto strappa alla Juventus l’uomo dei record, nella squadra dei record, Thierry Henry. E’ un Arsenal che domina fisicamente gli avversari a tutto campo, a cominciare del capitano Vieira, mentre davanti la fantasia di un talento (spesso inespresso) come Bergkamp è al servizio di una macchina da gol come Henry. Senza dimenticare il lavoro di gregari di lusso, come Gilberto Silva (definito "The invisible wall" dai tifosi di Highbury per ovvi motivi), o Robert Pirès, uno dei migliori esterni, per la qualità nel saltare l'uomo, degli ultimi 20 anni. La verticalità e il controllo degli spazi degli Invincibles sono letteralmente ingestibili per le lente difese della Premier di inizio millennio, e anche il nemico di sempre, il Manchester United, deve soccombere allo strapotere fisico e tecnico dei Gunners, culminato nell'epica "Battle of Old Trafford". Per eguagliare un’impresa, quello delle 0 sconfitte in una stagione, che era riuscita l’ultima volta nel 1889 (!) al Preston North End, ci voleva insomma, uno come Wenger, un allenatore fuori dagli schemi della tradizione.
Resistendo al cambiamento
Molti degli addetti ai lavori vedono, in maniera ovviamente simbolica, la demolizione del glorioso Highbury, con il conseguente trasferimento al modernissimo (ma forse più freddo) Emirates Stadium, il vero spartiacque della vita di Wenger all’Arsenal. Diciamo che è l’immagine perfetta dell’evoluzione drastica della Premier League negli ultimi anni. Sulla spinta di investitori come Roman Abramovich o Mansur al Nayan (lo “sceicco” del City) la competizione è aumentata a dismisura, in primis sul rettangolo verde e in secondo luogo come vera e propria guerra dei prezzi.
A questi stravolgimenti Wenger si è opposto cercando di cambiare il meno possibile la sua idea di Arsenal. Stagione dopo stagione ha sempre puntato a ricreare l’ecosistema perfetto che ha caratterizzato gli exploit a cavallo del millennio. Sul campo tramite una costante ricerca della verticalità, anche in fasi di possesso prolungato, e di un gioco di prima di sempre più difficile attuazione visti i ritmi (eccessivamente) frenetici a cui da tempo ci abitua la Premier League.
Fuori dal campo invece rifiutando e anzi opponendosi, alle spese folli dei club di vertice della Premier. Anche nella sua perenne ricerca del tassello mancante della squadra, un portiere dopo l’addio di Lehmann, un difensore dopo il ritiro di Sol Campell e infine una punta da 30 gol a stagione (a là Henry), si è sempre rifiutato di spendere più del dovuto. Così come non si è mai opposto alle cessioni di giocatori richiamati dagli stipendi delle altre grandi d’Inghilterra. Penso ad Ashley Cole al Chelsea, Nasri al City e last but not the least, Alexis Sanchez allo United. E’ anche per questo motivo che negli ultimi 3 anni il colpo migliore piazzato da Wenger è stato un rinnovo, quello di Mesut Ozil, la vera luce nella penombra del tunnel in cui oggi si trovano i Gunners. E tutto ciò nonostante l’Arsenal possa permettersi eccome certe spese, con un fatturato che per la stagione 2016/2017 si aggira sui 420 milioni di sterline e un profitto netto di quasi 40 milioni. Una solidità finanziaria invidiabile considerando anche la mancanza dei ricavi garantiti dalla Champions League, per la prima volta in 20 anni.
Senza dubbio questa gestione attenta, quasi manageriale, della situazione finanziaria del club non ha contribuito a migliorare l’immagine di Wenger presso la tifoseria, che ha finito per identificarlo, troppo spesso forse, direttamente come il responsabile assoluto di ogni acquisto poco riuscito del club, sulla scia dei vari Mertesacker, Welbeck e Xhaka. Nel vortice di una nuova Premier League caratterizzata da contratti faraonici per i diritti tv e stadi a prova di hooligans, Wenger è sostanzialmente rimasto fermo e saldo nelle proprie convinzioni, con tutti i risvolti, positivi e negativi, che ne derivano.
Un nuovo Arsenal?
Quattordici anni senza campionato sono troppi. Lo sono in particolare per una squadra che in questi quattordici anni si è sempre mantenuta nel novero delle prime quattro della Premier. E’ vero, come detto, che la concorrenza è aumentata nell’ultimo decennio, ma sembra sempre più una certezza come i problemi siano di una natura più esterna al campo, quasi metafisica. L’Arsenal si è rivelato più di una volta il peggior nemico di sé stesso. I cali di prestazione a metà stagione, anche contro avversari non di spessore, sono stati in certi casi drammatici e per i tifosi del club di North London sono ormai l’abitudine. Il più eclatante è quello della peggior stagione di Wenger sulla panchina dei Gunners, quella, già citata, 2015-2016: eclatante non tanto per il risultato finale (un onorevole secondo posto), ma piuttosto per un campionato sfuggito di mano, a favore della sorpresa Leicester, nell’anno della crisi di City, Chelsea e United. Quattordici anni senza campionato hanno spinto alla fine Wenger ad abbandonare la plancia di comando di un club modellato a sua immagine e somiglianza. Dopo i vari “Wenger out” e “Thanks for the memories”, che tappezzano da anni gli spalti dell’Emirates, speranze e paure per il futuro del club si confondono e si mescolano nelle teste di molti tifosi dell’Arsenal. L’allenatore alsaziano lascia un club finanziariamente in salute e con un stadio di proprietà; lascia una rosa sicuramente di alto livello, visti anche i recentissimi arrivi di Mikitharian e Aubameyang, e con un buon numero di giovani in rampa di lancio (Iwobi e Bellerin su tutti); lascia in generale un progetto coerente che la società ha già detto di voler portare avanti.
La sfida per il suo successore, a prescindere dal nome, si presenta non per questo meno ardua. In squadra c’è qualità da vendere, ma nel complesso il gap con i due club di Manchester sembra difficilmente colmabile, ora come ora. Permangono anche parecchi punti interrogativi in un paio di ruoli chiave (immagino che Nacho Monreal sia titolare solo se presumo che Wenger abbia ormai seri problemi di vista), e in definitiva sembra necessario un intervento più deciso sul mercato se l’obiettivo della dirigenza è quello di tornare ai fasti di un decennio fa. Indubbiamente un volto nuovo in panchina porterà una nuova idea di gioco lontana dall’ ormai idealizzato palleggio in verticale alla Wenger, riuscendo magari a limare i difetti della rosa (in particolare quelli del pacchetto arretrato), adattando il contesto ai giocatori e non il contrario. In sostanza un cambiamento così importante non potrà che giovare.
In ogni caso ai tifosi dei Gunners non manca sicuramente la fiducia. E non manca nemmeno la riconoscenza verso una persona che ha scritto comunque pagine di storia del club. Dobbiamo stare molto attenti nel bollare troppo in fretta come fallimentare la più che ventennale avventura di Wenger all’Arsenal, solo perché negli ultimi anni è riuscito a portarsi a casa appena un paio di FA Cup: rischiamo infatti, così facendo, di tirare letteralmente una riga su una delle più moderne e meglio riuscite idee di calcio degli ultimi 50 anni e, come ho più volte sottolineato, nel caso di Wenger non mi riferisco solo a quanto si è visto sul campo da gioco. Dovremmo invece fare come hanno fatto i tifosi nell’ultima partita giocata in casa dai Gunners, all’ingresso in campo di Wenger con la squadra: alzarci in piedi e applaudire. Merci, Arsène.
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