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6 Febbraio 2018

Le ombre passate e presenti su Antonio Conte



L’ultima banderilla nel ventre del Chelsea l’ha infilata Roberto Pereyra. Il destino era già segnato, proprio come quello del toro che giace nell’arena, ormai vinto. Quel diagonale violento che va ad infilarsi accanto al palo opposto, nei minuti di recupero, a fissare sul clamoroso punteggio di 4 a 1 il computo finale, è proprio come una di quelle crudeli banderillas, con cui il torero infilza il toro che ha già matato.

Il diagonale di Pereyra è solo il suggello fatale, quel segnale che ti arriva da chissà dove, quell’evento simbolico che serve giusto ad instillarti il dubbio che qualche mano misteriosa finisca sempre per intervenire nei destini umani. Un argentino che tre anni e mezzo prima era arrivato esattamente nel posto da cui lui se ne era andato, solo qualche giorno prima. Dunque non solo non sarebbe arrivato Cuadrado e Sanchez, ma manco Iturbe, bensì Pereyra. Quando l’argentino arrivò, trovò Massimiliano Allegri. Conte non c’era più.

Gli incroci del destino. Forse siamo noi, magari anche surrettiziamente, a volergli attribuire un senso a ciò che, in realtà, non ce l’ha. Non ci fosse stato quel gol, la sconfitta in casa del Watford avrebbe prodotto gli stessi effetti. Eppure i collegamenti a volte, ancor prima di essere logici e causali, possono rivelarsi simbolici.  Il gol dell’argentino, transitato a Watford via Juventus, ci conduce a connetterci simbolicamente proprio a quell’estate di tre anni e mezzo fa. E a guardarvi dentro, a esplorarne bene le possibilità che tale collegamento offre, a percorrerne tutti i fili.

Sono due storie ben diverse, ovviamente. Antonio Conte e la sua Juve, di cui era stato capitano di tanti trionfi e che prese da allenatore in uno dei momenti più critici della sua storia. Riuscì ad instillare di nuovo in essa e nei suoi tifosi l’orgoglio e la nietzchiana volontà di potenza perduta. Ora, invece, Antonio Conte e il Chelsea, una storia ben più breve e in qualche modo occasionale, fatta di una Premier League vinta e di una mezza stagione particolarmente controversa. Anche la fine sarà diversa. Da Londra non se ne andrà, almeno fino a quando non lo cacceranno. Eppure, a guardarvi bene dentro, le analogie ci sono.

Cuadrado, Sanchez, Iturbe. I malumori per i possibili, probabilmente programmati, addii di Pogba e Vidal. La famosa metafora del ristorante e del budget a disposizione per mangiare. Rimanendo in superficie e affidandoci alla cronaca nelle pagine sportive dell’epoca, si può dedurne come uno dei conclamati punti di rottura con la Juventus, nello specifico con la proprietà e la dirigenza, risiedesse nelle strategie di mercato. Basta semplicemente riportarci al presente per ritrovare gli stessi temi, sostituendo ai nomi precedenti quelli di Dzeko o Alex Sandro. Oppure rifarci alle sorprendenti dichiarazioni che egli ha recentemente lasciato ai microfoni di Alessandro Alciato, in cui si era spinto addirittura a lamentare una “carestia”, in merito alle risorse di mercato messegli a disposizione da Abramovich.

Insomma, già a volerla guardare in superficie, la storia si ripete e Antonio Conte sembrerebbe incarnare la dimostrazione scientifica delle teorie di Giambattista Vico. Non a caso, tuttavia, bisogna chiarire che si tratta di superficie. Infatti, in entrambe le manifestazioni della storia, in quella juventina e in quella londinese, il cosiddetto “mercato” non rappresenta, a mio parere, la motivazione profonda e sostanziale delle crisi di Antonio e delle conseguenti rotture. Riguardo alla Juventus, a tre anni e mezzo di distanza, ci viene in soccorso proprio il corso successivo degli eventi.

Sulla panchina bianconera non c’è stato più lui, ma Massimiliano Allegri e non solo la Juve ha vinto tutti e tre i campionati e tutte e tre le Coppa Italia in esame, ma è addirittura arrivata per due volte su tre in finale di Champions. I detrattori di Max e della Vecchia Signora diranno che quelle due finali hanno segnato una disfatta per i bianconeri, ad ogni modo risulta difficile sostenere ancora la metafora del ristorante e del budget a disposizione per mangiare, di fronte a due finali raggiunte in tre anni.

Per quanto riguarda il Chelsea, invece, possiamo ben dire che a Conte è stato imposto di accontentarsi di Giroud ed Emerson Palmieri in ripiego di Dzeko e Alex Sandro. Non è la stessa cosa, obiettivamente. L’involuzione dei blues, tuttavia, parte da molto più lontano. Eppure di soldi in estate ne sono stati spesi parecchi. Specie per arrivare a Bakayoko, Morata, Drinkwater e Rudiger, esplicite richieste proprio da parte sua, parrebbe. E poi, tutto si potrà dire di Abramovich, tranne che non abbia soldi da poter investire sul mercato. Allora, se qualche problema c’è, riguarda evidentemente un discorso di strategia e conseguenti scelte. Un discorso che investe direttamente proprio Antonio Conte, specie nella tradizione inglese, che vede la figura dell’allenatore assomigliare parecchio a quella di manager. Se ne deduce che le motivazioni profonde vadano cercate altrove e, anche in questo caso, torna buono il collegamento tra Vinovo e Londra.

I retroscena di quel periodo svelano il racconto delle preoccupazioni del leccese riguardo all’usura cui rischiava di sottoporsi il rapporto tra lui e la squadra, al culmine di tre anni spinti a tutta sull’acceleratore. Senza sosta, senza possibilità di prendere il respiro, come se non bastasse neanche più vincere, ma fosse necessario stravincere. Il famoso record di 102 punti, a mascherare forse la delusione e gli insuccessi in campo europeo di quella Juve. Ecco che tornano i punti di contatto: le competizioni europee o, se preferite, la doppia competizione di alto livello. Al suo primo anno a Vinovo quella Juve il doppio impegno non lo aveva. Probabilmente il Milan di Allegri le era superiore per qualità della rosa, ma i bianconeri compirono l’impresa, avendo anche la possibilità di concentrare tutti i loro sforzi e le loro energie sul suolo italico. Nei due anni successivi, malgrado l’impegno in Europa, la sua Juve ha vinto lo stesso in Italia, ma ha deluso oltre confine. Al primo tentativo s’infranse negli ottavi contro il Bayern Monaco, che poi la Coppa la vinse. Niente di strano fin qui, ma la sensazione d’impotenza bianconera nella doppia sfida fu di quelle che lasciano il segno. L’anno successivo l’eliminazione sopraggiunse addirittura nei gironi, nell’infausta neve di Instanbul, per opera di Mancini, di Sneijder e del Galatasaray. Conseguente retrocessione in Europa League e il destino offrì davvero la possibilità di un riscatto. La finale della competizione era programmata proprio nello Stadium. Quale miglior teatro per un trionfo europeo? Invece ci fu il Benfica e a Torino, quella finale, la giocarono gli altri.

Accantoniamo di nuovo il passato e riprendiamo i fili del presente. Dopo aver dominato la Premier senza l’impegno europeo, quest’anno Conte e il suo Chelsea hanno dovuto affrontare anche l’impegno della Champions. Si tratterà forse di uno di quei ricorsi storici di cui parlava il già citato filosofo Vico, se il cammino dei blues è diventato assai più accidentato proprio contestualmente a tale circostanza? Probabilmente no. La logica e l’esperienza indurrebbero, piuttosto, a pensare che quello spingere al massimo sul’ acceleratore, quella capacità di torchiare fisicamente e mentalmente la propria squadra, in sintesi il peculiare modo di allenare di Antonio Conte, si concili più difficilmente con i ritmi e i calendari intasati imposti dalle Coppe.

Andando poi ancora più dentro alla questione, più in fondo a quei retroscena di tre anni e mezzo fa, troviamo testimonianza di presunte dichiarazioni che lasciavano presagire una condizione di stress e di usura psicologica dello stesso allenatore. “Non dormo più la notte. Non ce la faccio più”, avrebbe confidato ai suoi uomini di fiducia. Non sarebbe certo il primo caso. Lo stress e la pressione psicologica, cui il ruolo dell’allenatore sottopone l’essere umano che lo incarna, è qualcosa di cui è piena la letteratura, oltre alla cronaca sportiva. Ne ha parlato persino Guardiola, in relazione alla fine della sua storia blaugrana. Soprattutto conosciamo, per sua diretta testimonianza, la vicenda di Arrigo Sacchi. Ecco, l’accostamento con Arrigo Sacchi può davvero non risultare campato in aria, per l’attuale allenatore del Chelsea. Le differenze d’impostazione, di filosofia tattica e di sistemi di gioco risultano evidenti, ma i due risultano senz’altro assimilabili per il modo d’intendere il ruolo e il mestiere della panchina. Entrambi animati da un anelito verso il perfezionismo che rischia quasi di diventare ossessione, oltre che sospinti dalla preponderanza del proprio ego. In quell’estate del suo addio ai bianconeri, Antonio da Lecce temeva di non poter riuscire a spremere qualcosa in più di quello che aveva già spremuto fino ad allora, né dalla squadra né probabilmente da se stesso. Fermo restando che, dopo l’esperienza con la Nazionale, è andato al Chelsea e ha vinto anche lì. Sacchi vinse due Coppe dei Campioni, oltre ad uno scudetto, ma sempre e solo con quel Milan.

Ora, riannodano i fili del presente, risulta chiaro che neanche oggi Conte sia esattamente in quella condizione di pace interiore a cui fa riferimento Missori 4, il nostro tassista di riferimento. La fotografia più chiara del suo stato di tensione psicologia ed emotiva è ovviamente fornito dalla furiosa e sconsiderata lite a distanza con Mourinho. Il sintomo di una malcelata ansia, che tradiva chiaramente una scarsa fiducia nella stagione che andava ad attraversare, però si era avuta già in estate e, manco a farlo apposta, era già sfociata in un primo duro botta e risposta con l’amicone portoghese, allorquando Conte aveva detto: “Voglio evitare la stagione di Mourinho. Due anni fa la squadra era finita decima.” Da par suo, quell’altro non mancò di usare il suo sarcasmo sulle problematiche tricologiche del suo rivale, ma la questione che qui c’interessa è un’altra. Perché un allenatore, reduce dal trionfo nella stagione appena conclusa, aveva sentito tale bisogno di mettere clamorosamente le mani avanti?

Come se anche stavolta avesse presentito di aver già spremuto quello che c’era da spremere, innanzitutto da se stesso. In un tempo ancora più breve, sia perché il legame con la Juve era senza dubbio molto più intenso e sentito rispetto a quello con il Chelsea. Sia perché, facendo una considerazione maligna, magari era perfettamente consapevole delle difficoltà ben diverse che riserva la Premier rispetto alla contemporanea serie A. Stavolta, tuttavia, non si dimetterà. Per ora, non lo esonerano. La storia continua. Nel mirino ci sono Barcellona, Manchester United dell’amicone Mourinho, e Manchester City. Chissà se ci arriverà.

E chissà se, rievocando l’esperienza da dead man walking di Ranieri, nel suo ultimo anno su quella stessa panchina, egli riuscirà a capovolgere il suo destino, spazzando via tutte le ombre. Passate e presenti.


  • Raffaele Cirillo, classe 1981, di Paestum. Fantasista di piede mancino, ma solo fino a 17 anni, rigorosamente un passo prima del professionismo. Iniziato al calcio dal pirotecnico Ezio Capuano nel settore giovanile dell’Heraion, che poi gli ispirerà anche un libro, un romanzo sul calcio intitolato "Il mondo di Eziolino". Con la stessa disposizione d’animo e la medesima aspirazione creativa con cui si disimpegnava in campo, ora il calcio lo guarda, lo interpreta e ne scrive.

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