Il lascito di Ronaldinho
Uno dei giocatori più iconici del nuovo millennio.
Inquadrare Ronaldinho secondo i canoni del calcio moderno è incredibilmente difficile. Quando si parla di lui - specialmente per chi, come me, è nato alla fine degli anni '80 - entrano in gioco di prepotenza emozioni e sensazioni quasi ancestrali, inspiegabili razionalmente, che prendono prima con educazione e poi con prepotenza il sopravvento.
Raccontare le sue qualità è quasi tautologico; d'altronde, parliamo di un giocatore che ha avuto a disposizione un'infinità di soluzioni tecniche. Ronaldinho ha saputo correre veloce come il vento ma col pallone attaccato al piede, sotto il suo pieno controllo, ma anche muoversi nello stretto come pochi altri, modulare a suo piacimento tempi e spazi di gioco grazie a colpi che sfuggono al nostro sguardo e quasi all'umana comprensione. Lo abbiamo visto servire assist geniali che i compagni si vedevano arrivare con attorno una luce quasi mistica e calciare con efficacia assoluta con qualunque parte del piede e con qualunque piede. Eppure, sotto questo velo dorato di tecnica straripante, c'è qualcosa di più profondo: c'è l'emozione di chi Ronaldinho lo ha visto giocare negli stadi, in tv o nei video sui cellulari.
Ronaldinho ha incarnato la fantasia, la trasposizione del bambino che giocava al campetto su un campo di adulti. Ci ha ricordato le vere origini ludiche del calcio con giocate che non hanno alcun senso, se non per lui. La sua voglia di divertirsi è qualcosa di incredibilmente evidente. Quando, in una partita di under 16 del suo Gremio contro il Cascavel, riceve al limite dell'area, Ronaldinho si trova davanti tutta la difesa schierata. Davanti a sé ha almeno uno scarico comodo su un compagno al limite dell'area; il buon senso suggerirebbe di servirlo ma lui sceglie una soluzione controintuitiva. Parte verso sinistra, saltando prima un avversario, poi il suo stesso compagno e poi, forse con un rimpallo, un altro avversario. Alla fine è molto più largo di prima e ha il pallone sul sinistro.
La soluzione di tiro è inspiegabile: colpisce con la punta sotto in controtendenza al suo movimento, col pallone che scavalca da un lato all'altro tutta l'area di rigore, spiazzando così la difesa posizionatasi pure bene a coprire l'unica traiettoria che quel pallone avrebbe potuto seguire, se fosse stato calciato da qualcun altro.
Anche nel suo soprannome, "alegria do povo", Ronaldinho porta con sé il filo rosso del suo gioco: l'allegria. Quella stessa allegria che ci pervadeva quando uscivamo da scuola, posavamo le cartelle per terra e iniziavamo a dar calci a qualunque cosa ma anche quella che Dinho ha portato al Barcellona nel 2003 e che, a detta dei suoi compagni, ha cambiato totalmente l'aria nella squadra. Il suo gioco gioioso e ha trasmesso ai suoi compagni un senso di invincibilità, come detto da Eto'o in seguito, e lo ha fatto amare anche dai suoi avversari, fino a ricevere gli applausi del Bernabéu nel suo momento più brillante: il clasico del 19 novembre 2005.
Quella partita avrebbe mille motivi per essere maledettamente dolorosa per i tifosi del Real: il Barcellona ci arriva con un +4 in classifica e se andrà con un +7, dopo un 3-0 leggendario. Gli applausi il Bernabeu glieli tributa dopo il secondo gol, il primo della sua partita, in cui semplicemente corre più veloce di tutti ma senza mai perdere il contatto con il pallone, facendo sembrare prima Sergio Ramos e poi Ivan Helguera due spettatori presi e mandati in campo all'ultimo secondo.
Ronaldinho è sempre stato un talento straordinario ma più di tutto un creativo straordinario, capace di raggiungere il suo obiettivo in modi che a una persona normale non verrebbe neanche di pensare. Il suo gol da sedicenne contro il Cascavel e quello che segnerà sei anni dopo all'inghilterra seguono il suo tratto controintuitivo, originale oltre ogni aspettativa. Questa volta l'opportunità la offre un calcio di punizione, defilato sulla destra, a circa 35 metri dalla porta. Per la posizione da cui Ronaldinho batte, la soluzione più ragionevole sarebbe un pallone morbido verso l'area per puntare sul colpo di testa di un compagno. Lui però stravolge ancora una volta il senso comune: all'ultimo istante sposta il peso del corpo sulla gamba d'appoggio e apre l'angolo del piede, impattndo il pallone per tentare un tiro in porta.
A un primo impatto l'esecuzione sembra più un tentativo di cross uscito male che non un tiro ma riguardandolo è difficile non cogliere una scelta consapevole nell'esecuzione, un colpo di teatro per sorprendere tutti. Il più sorpreso infatti è Seaman, il portiere inglese, che si posiziona fuori dai pali aspettandosi un cross che mai arriverà, arretrando malamente per cercare di metterci una pezza e, infine, cadendo in maniera goffa mentre il pallone termina alle sue spalle. È uno dei gol meno belli di Ronaldinho ma è il paradigma del suo modo di stare in campo e vivere il gioco.
Ronaldinho è un freak tecnico ma anche estetico: un'artista di strada che, come solo gli artisti sanno fare, trasforma le sue skills apparentemente superflue in necessarie. È proprio l'imprescindibile utilità delle sue giocate, che gli hanno garantito quasi 300 gol da professionista e un'innumerevole quantità di assist ai compagni di reparto, a distinguerlo da un qualunque freestyler su YouTube. Ronaldinho, pur non rinunciando mai alla giocata spettacolare che lascia a bocca aperta il pubblico, non ha mai fatto giocate fini a sé stesse e basta, ma è riuscito anche ad essere concreto come l'attaccante di punta di una squadra ai vertici mondiali e un Pallone d'oro devono essere. In questo Ronaldinho è stato un mago, come per Houdini i suoi trucchi di evasione sono stati spettacolo ma anche sopravvivenza.
Quando, la sera dell'8 marzo 2005, Ronaldinho riceve palla da Iniesta al limite dell'area, la gabbia intorno a lui è la migliore d'Europa: quella con le maglie blu del Chelsea di Mourinho. Evadere da quella gabbia è stato praticamente impossibile per chiunque tranne che per lui. Quando il pallone gli arriva sui piedi ha due uomini davanti e uno dietro, non ha alcuna inerzia per calciare né lo spazio per crearsela. Ma lui non se ne interessa. Calcia praticamente da fermo e incrocia in modo semplicemente stupendo. Cech e i suoi compagni sono delle statue di sale, totalmente sconvolti da qualcosa che non aveva alcun senso logico.
Ronaldinho è stato perfezione, di quelle che sembrano profeticamente scritte prima che avvengano, quelle in cui tutti i pezzi del puzzle si assemblano da soli per dare l'immagine finale, a cui niente di nuovo si può aggiungere. Legandoci al materiale, possiamo dire che la sua perfezione, Dinho la raggiunge a Parigi la sera del 17 maggio 2006, quando il suo Barcellona sta alzando la seconda Champions League della sua storia. In quel momento, Ronaldinho ha vinto tutto quello che poteva vincere. Nello stesso momento è campione di Spagna, d'Europa, del Sudamerica e del Mondo; è il giocatore dell'anno della FIFA e il Pallone d'Oro in carica. Tutto insieme, come mai riuscito prima a nessuno, e come ancora non è riuscito a Messi e Cristiano Ronaldo. Forse è qui che Dinho capisce di averne avuto abbastanza. D'altronde, cos'altro puoi chiedere di più?
Il mondiale di Germania è una delusione: il Brasile si infrange contro l'eterea classe dell'ultimo Zidane e il Barcellona comincia a declinare. Nonostante continui a regalare perle di talento purissimo, Ronaldinho è meno arrembante, meno deciso degli anni appena trascorsi, tanto che non porta a casa nessun trofeo, neppure l'Intercontinentale, dove viene battuto, lui tifoso purosangue del Grêmio, dagli odiati "cugini" dell'Internacional di Porto Alegre.
Ronaldinho è un'artista innamorato della propria arte, appagato solo e soltanto da ciò che è in grado di creare. Non è un superatleta col chiodo fisso dell'allenamento, dei numeri, delle vittorie, dei record da frantumare, come lo saranno dopo di lui Messi e Cristiano Ronaldo. Per lui è stato sufficiente raggiungere la vetta una volta sola e, anzi, è sembrato quasi che il successo fosse un effetto collaterale del suo piacere, puro e semplice, di giocare a calcio. Di divertirsi, di sbalordire, di trovarne conferma negli applausi del pubblico pagante.
Chissà cosa avrà pensato dello show che il Milan ha allestito per la sua presentazione: uno stadio solo per lui, coriandoli, tappeto rosso srotolato, "We Will Rock You" dei Queen sparata dagli altoparlanti di San Siro. A vederlo sembra felice: sorride e mostra al pubblico la sua esultanza, accolto in campo più come una pop star che non come un giocatore del Milan.
Il Ronaldinho del Milan non è più quello di Barcellona: il fisico non è più longilineo come in blau-grana, i dribbling sono gli stessi ma sembrano eseguiti al rallentatore, e sembra quasi giocare solo in orizzontale. Eppure, gioca ancora a calcio con il suo stile, senza pressioni e senza la preoccupazione di dover vincere a tutti costi, che anche la maglia che indossa gli dovrebbe trasmettere.
Non è un caso che l'anno migliore dell'esperienza in rossonero sia proprio quello con Leonardo in panchina, tecnico un po' naïf e profondamente lontano dalla tradizione italiana, con quello che la stampa chiamava 4-2-fantasia con il quale provava a far coesistere tutte le stelle rossonere in rosa - Seedorf, Pato e Beckham oltre allo stesso Dinho - in una maniera un po' anarchica, ma che al pubblico milanista non dispiaceva affatto.
E non è un caso neanche che sia stato proprio un allenatore più rigido come Allegri, le cui posizioni sull'estetica del gioco sono ben note, a farlo passare in secondo piano nel Milan. Il suo ritorno in Brasile a soli 30 anni ci mostra chiaramente come per lui la dimensione ludica del gioco resti ancora la più importante. Lascia un calcio che, rispetto agli anni del suo prime, è diventato sempre più intenso e cinetico, qualcosa di profondamente incompatibile con la sua identità profonda. In Sudamerica, dove ritrova un'identità più compassata, Dinho torna a essere un fattore. La Copa Libertadores conquistata nel 2013 con la maglia dell'Atletico Mineiro ce lo dimostra.
Il suo legame profondo con l'estetica, però, inizia a prendere il sopravvento anche sulla sua dimensione professionistica. Quando, nel settembre 2015, rescinde con il Fluminense, Ronaldinho completa la sua transizione verso lo showman, iniziando a giocare solo partite di esibizione.
Il lascito di Ronaldinho è quello di un calciatore fenomenale ma che, in un certo senso, è rimasto eternamente bambino come un Peter Pan in pantaloncini e scarpette, che è rimasto tale nell'atteggiamento anche quando scendeva in campo all'apice della propria carriera, con quell'aria da ragazzino più grande che chiede ai suoi amici: "Facciamo due tiri?". Ha oscillato sempre tra l'atleta e lo showman, il cui primo obiettivo è sembrato più il piacere estetico degli spettatori che non il risultato della partita. La sua eredità sarà quella forse dell'ultimo grande giocatore che non ha mai nascosto il suo divertimento, il suo piacere di giocare a calcio in uno sport in cui la dialettica successo-fallimento ha fagocitato tutto il resto.
Le partite di Ronaldinho sono esperienze estetiche uniche e sempre diverse. Forse per questo non ci siamo mai assuefatti al suo gioco come abbiamo fatto con Messi e Cristiano Ronaldo. Forse per questo non ci stancheremo mai di vederlo giocare.
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