Quando il Monaco sembrò il Real Madrid
Storia di una cavalcata straordinaria.
Chiunque rientri nella categoria “calciofilo”, non può non conservare nel cassetto dei ricordi un’annata in cui il suo cuore ha battuto più intensamente per una squadra. Vuoi perché è stata la colonna sonora delle gioie nella vita privata, vuoi perché l’ha seguita in ogni stadio, vuoi perché è sceso in piazza a festeggiarla, insomma vuoi per le ragioni più disparate, fatto sta che ognuno di noi ha scolpito nella mente un undici che può ripetere a menadito anche a distanza di lustri. Ma se per 9 su 10 questa formazione si sovrappone a quella del cuore, l’eccezione che conferma la regola (alias il sottoscritto) per una stagione o forse anche meno si è innamorato follemente per dei colori che malapena conosceva fino ad allora: quelli del Monaco finalista di Champions League 2003-’04.
Sono passati già la bellezza di 11 anni, ma questo flashback, scattato all’improvviso quasi un mesetto fa quando la Juventus ha sorteggiato i francesi nei quarti della Coppa dalle grandi orecchie, resta ancora nitidissimo nella memoria di chi vi scrive. Magari vi aspetterete la fantomatica storia di un adolescente visionario che di punto in bianco si è incollato alla tv sorbendosi tutte e 13 le partite dei ragazzi di Didier Deschamps, consapevole che avrebbero asfaltato chiunque. Niente di tutto ciò: in quella stagione ho visto appena le ultime 5 sfide dei biancorossi.
Non essendo ancora quella l’era della multimedialità, degli smartphone, dell’internet veloce e dell’invasione delle pay tv (Sky in realtà era nata ad agosto del 2003, ma rappresentava un lusso per baristi e pochi altri eletti), non potevo far altro che sperare che Mediaset proponesse una loro gara in chiaro. Eppure, quando quel mercoledì 24 marzo del 2004 il club del principato si apprestava a varcare la soglia del Santiago Bernabeu per sfidare il Real Madrid nell’andata dei quarti, idealmente ero seduto nel settore ospiti ad incitarli. Colpa, se così si può dire, di un iperbolico servizio di non so quale tg sportivo confezionato il 6 novembre 2003, ossia il giorno seguente la vittoria del Monaco contro il Deportivo La Coruna per 8-3 nella fase a gironi. 8-gol-8, di cui 4 firmati da uno spilungone croato, tale Dado Prso. Mi sembrava tutto maledettamente troppo bello ed assurdo per essere vero.
Un centravanti dal nome tanto tenero, quanto ruvido il cognome, che faceva coppia in attacco con un folletto effervescente, capitan Ludovic Giuly, un centrocampista dall’eleganza regale, Jerome Rothen, spalleggiato dall’incursore Jaroslav Plasil e dal settepolmoni Edouard Cissè: furono loro gli eroi di una notte meravigliosamente folle, in cui i monegaschi, avanti 4-0, si fecero rimontare 3 reti, salvo poi calare un altro poker. Anche se non li avevo visti all’opera, da quel momento erano già diventati i miei idoli di default. Perché erano biancorossi come il mio Rimini, perché erano la squadra di un microstato al confine con l’Italia, perché rifilare 8 gol in Champions, a maggior ragione al Depor, nei primi 2000 un autentico spauracchio, non era roba da tutti i giorni (per la cronaca, in quell’edizione i galiziani arrivarono fino alle semifinali).
No vabbè, se anche Ibarra si mette a fare la rabona, significa che qualcuno lassù gli voleva bene...
Superata la Lokomotiv Mosca agli ottavi dopo aver dominato il girone, ecco quindi il confronto col Real. Proprio perché si prospettava un confronto senza storia, da buon romantico del pallone qual ero a 14 anni, avrei fatto un tifo ancora più sfegatato per i francesi. “4 pere e vanno a casa” il pronostico di mio padre, steso sul divano accanto a me per gustarsi il match su Canale 5. Ma io ci credevo. O meglio, ci speravo. Tanto che a pochi secondi dal fatidico tè caldo di fine primo tempo, Squillaci in mischia porta in vantaggio i biancorossi, a coronamento di una prima metà tutta spigliatezza e coraggio.
Troppo bello per essere vero. Infatti il Madrid gioca un secondo tempo formato galactico: Helguera, Zidane, Figo e Ronaldo (il fenomeno, tanto per intenderci) crivellano 4 volte Roma. E addio sogni di gloria della piccola cenerentola e di un bimbo deluso, che sta per prendere la via del letto. Ma all’84’, quando tutto sembra perduto, Plasil dal lato corto dell’area scivola, si rialza e la mette in mezzo, dove Morientes infila con una capocciata imperiosa Casillas. Dei 15.000 “proprio lui” urlati da Sandro Piccinini nella sua carriera di telecronista, quello era uno dei pochi pertinenti. “El moro” aveva rappresentato infatti assieme a Raul un’icona a cavallo dei due millenni di quel Real. Che in estate, chiuso da Ronaldo, era stato girato in prestito nel principato. “E andiamo, non è finita!” ruggivo con ritrovato entusiasmo, puntualmente zittito da mio babbo “Ma se non li salva dall’eliminazione neanche Padre Pio...”.
Quello che invece accadde al ritorno il 7 aprile non l’avrebbe potuto partorire neanche la mente perversa di Alfred Hitchcock. L’1-0 madridista firmato Raul sembra la mazzata definitiva, ma il rasoterra tracciato da Giuly al minuto 45+1 su cui soffia tutto il Louis II fino a depositarsi in fondo alla porta, è l’anticamera di una ripresa di fuoco. Minuto 48: cross di Evra, il tarantolato Morientes mangia in testa al pessimo Mejia, rimanendo sospeso in cielo per un’eternità. Stacco di una potenza inaudita e Casillas di sale: 2-1. Il colpo di grazia è servito nuovamente da Giuly – che, ironia della sorte, in estate passerà ai nemici giurati delle merengues, il Barcellona – con un tacco degno del miglior Crespo. Ibarra, probabilmente posseduto dallo spirito di Cafu, irride un altro brasiliano, il pluridecorato Roberto Carlos, mettendo al centro un tiro-cross girato in porta dal folletto alto 164 centimetri. Libidine doppia per chi come me al tempo svalicava appena il metro e mezzo di altezza. Al triplice fischio balzavo in piedi sul divano senza neanche realizzare cosa fosse successo.
Ecco avete presente quando nell’incipit parlavo di un undici scolpito nel tempo nella vostra mente? Per me è quella formazione che quella sera aveva annientato i 9 volte campioni d’Europa: Roma-Ibarra-Rodriguez-Givet-Evra-Plasil-Cissè-Rothen-Giuly-Morientes-Prso. Tutta d’un fiatone. Un 4-3-3 atipico in cui spesso Morientes e Giuly si abbassavano tra le linee e Rothen si alzava sulla sinistra, a comporre una sorta di 4-2-3-1, che però in fase di non possesso si trasformava in un canonico 4-4-2, con gli ultimi due larghi sulle fasce. In trasferta però Deschamps talvolta virava su un più prudente 4-1-3-2, con Giuly sulla stessa linea di Morientes, e Zikos al posto di Prso come schermo davanti alla difesa.
Pallini e lineette non rendono l'idea dell'alchimia sbocciata in quel gruppo.
Era scoppiata la Monaco-mania: a scuola si parlava solo di quegli eroi vestiti di bianco e rosso avvolti da un alone di mistero, vista la penuria di notizie su giornali e tv. Al campo della parrocchia, se fino a qualche settimana prima si emulavano i vari Del Piero, Shevchenko e Vieri, ora ci sentivamo tutti Morientes, Evra, Giuly e Rothen. Tra una partita a Pes 3 (dove dei monegaschi neanche l’ombra) e qualche coro d’incitamento chiesto ad hoc alla prof di francese, si arriva alla semifinale col Chelsea del magnate Abramovich.
Onestamente mi importava pochissimo della sfida tra i due portieri italiani (Roma per “noi”, D’Ambrosio, dodicesimo di Cudicini, dell’undici di Ranieri), pompata dai nostri media, a me interessava solo arrivare in finale. La capocciata tutto istinto di Prso porta avanti i padroni di casa, ma la zampata di Crespo riporta la gara sui binari della parità. Il match corre sul filo dell’equilibrio fino al 53’, quando Makelelè, venuto a contatto con Zikos a gioco fermo, finge di subire una fucilazione, propiziando così il rosso del greco. Una furbata agli occhi di un 14enne inammissibile, che fortunatamente non sfugge agli occhi degli dei del pallone. Che vogliono i biancorossi addirittura padroni del campo e carnefici dei londinesi. Scocca il minuto 78 ed Evra verticalizza per Prso, la cui rovesciata imbecca Morientes in campo aperto. Già lo sapevo che quello era gol. E la sua linguaccia con cui manda in visibilio i 15.000 del Louis II mi lascia tuttora pensare che in fondo pure lui ne era sicuro. Ancora prima di esplodere un potente collo esterno alla sinistra di D’Ambrosio. “E adesso gliene facciamo un altro!” sbraito dalla mansarda di casa mia. Forse un pelo troppo ambizioso, se si considera che gli uomini di Deschamps si sono sbattuti per quasi un tempo in inferiorità numerica. Ma all’82’ l’immenso Rothen trova la forza per sventagliare l’ennesima palla a centro area per il subentrato Nonda, che attacca il primo palo togliendo il tempo a Huth. È il punto del 3-1: giustizia è fatta.
La goduria per quella vittoria non scemava col passare del giorni, anzi. Al punto che il sabato sera, mentre molti miei coetanei erano in giro a divertirsi, io ed un mio amico ci eravamo tappati in casa per riguardare la partita registrata su vsh e vivisezionare tutte le azioni in cui entra Rothen. Che gggiocatore, Jerome Rothen! In quel magico 2003-04 gli era stata appiccicata l’etichetta di “Beckham di Francia”. Sia per il ruolo di esterno (lui però, a differenza dello Spice boy, è mancino), sia per il caschetto ossigenato. È stato qualcosa di eccezionale in quell’anno. Talmente eccezionale che dopo essersi guadagnato la convocazione per Euro 2004, la sua stella si è eclissata, ingrigendosi tra Francia, Scozia e Turchia a causa anche di un caratteraccio. E malgrado il ritiro annunciato il 1° gennaio del 2014, a distanza di 12 mesi esatti ha ripreso a giocare nei dilettanti. La tentazione quindi di paragonarlo ad un fuoco di paglia in campo musicale quale Jamelia (perdonatemi, colpa del tributo qui sotto) o a Nick Carter dei Backstreet Boys, vista oltretutto l’assonanza dei lineamenti somatici, è forte. Ma ingeneroso per una delle ultime ali del calcio moderno, accostabile per eleganza e purezza del mancino alle curve del barocco, o per l’impatto fulminante ma effimero alla toccata e fuga dei Liquido nel mondo della discografia, capaci di sfornare un brano come “Narcotic”, autentico must negli anni ’90. E poi nient’altro.
Classe inversamente proporzionale al suo periodo di splendore. Della serie: è stato bello finché è durato.
Sulle ali dell’entusiasmo, Giuly e soci vanno a Stamford Bridge con due reti di vantaggio. Ma gli uomini di Ranieri, massacrato dai tabloid britannici dopo il ko dell’andata, in 40 minuti la ribaltano. Gronkjaer al 22’ infila Roma con un fortunoso tiro cross, prendendosi tutti i miei accidenti possibili immaginabili. Altri 22 minuti e Lampard raddoppia. Non apro più bocca: ora in finale c’è il Chelsea.
Ma Rothen nel 2004 è la declinazione francofona di Beckham, forse anche qualcosa meglio. E a pochi secondi dall’intervallo prima si beve Melchiot, poi pennella un traversone su cui si arrampica Morientes: inzuccata sul legno e tap-in di Ibarra, che la butta dentro alla maniera di chi si ritrova da quelle parti per pura casualità. Tiro un sospiro di sollievo lungo quanto il quarto d’ora che separa i due tempi. La ripresa nel giro di 15 minuti si trasforma in una semplice formalità. Merito sempre del moro Morientes, che banchetta tra le macerie della difesa di casa, infilando il 2-2 che anticipa di mezzora i festeggiamenti. Come sempre mi succede in quei frangenti di estasi quasi panica, l’euforia era talmente grande che stentavo a capire la portata dell’impresa. Solo nelle settimane successive arrivavo a realizzare che il Monaco il 26 maggio del 2004 si sarebbe giocato la finale di Champions League col Porto. Un’attesa febbrile per un epilogo però drammatico. Su cui ci tengo ad aprire una parentesi: è passato più di un decennio, ma di quella finale non ho più visto mezza immagine.
E nonostante non sia più un adolescente, resto convinto che sia stata architettata una cospirazione ultraterrena per impedire ai biancorossi di alzare quella benedetta Coppa. Forse perché in estate si sarebbero svolti gli Europei in Portogallo, forse perché l’allora sconosciuto tecnico dei dragoes José Mourinho era già un predestinato, forse perché il cartellino di Ibarra era di proprietà dei portoghesi, fatto sta che quel giorno i ragazzi di Deschamps non erano in loro. Se poi ci aggiungiamo che dopo 23 minuti capitan Giuly aveva dovuto abbandonare la contesa per infortunio e gli iberici a fine primo tempo avevano già le mani su una finale in scala di grigi (1-0, il carneade Carlos Alberto al 39’), ecco servita una serata orribile di cui tuttora parlo malvolentieri. Completata nel lato B dal 2-0 del delizioso Deco e dal 3-0 dell’ex romanista Alenichev, un mezzo giocatore che in Italia fece cose tutt’altro che memorabili.
Francamente mi fregava pochissimo dell’arrivo di Deschamps alla Juventus (bufala clamorosa), io empaticamente ero una cosa sola con quei ragazzi “derubati” della Champions.
Consapevole che quella cavalcata europea per il Monaco era un sogno di una notte di mezza estate, persi nel giro di pochi mesi le tracce di quella squadra. Ma a posteriori, più per che per il ko in finale, mi ha fatto impressione scoprire che per molti di loro quell’annata abbia rappresentato il culmine di una carriera diversamente modesta. Solo Evra ha spiccato il volo, diventando una pietra angolare di un Manchester United con cui vincerà praticamente tutto. Proprio il terzino senegalese naturalizzato francese, trasferitosi la scorsa estate alla Juventus, stasera tornerà nel principato per affrontare i suoi vecchi colori nel ritorno dei quarti di Champions. E chissà che quando stasera calcherà le zolle del Louis II non gli torni in mente di quella volta in cui compì quel piccolo grande miracolo imperfetto.
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