Del Piero era il calcio
Era la festa di San Martino, patrono di Santarcangelo di Romagna, e stavo passeggiando coi miei genitori per le vie del centro. Il paese era pieno di bancarelle di ogni tipo, ma io rimasi impietrito davanti al bancone delle magliette da calcio. Avevo 6 anni e ancora non ero a conoscenza di cosa significasse questo sport in Italia, ma come tutti i bambini di quell’epoca, il “virus” del pallone si era già impossessato in me. All’oratorio come sotto casa, al parco come in salotto, l’importante era prendere a calci qualsiasi oggetto possibile immaginabile. Se sferico e ricoperto di cuoio tanto meglio. Mio padre, juventino fin dalla nascita, per indirizzarmi verso i colori bianconeri, decise di comprarmi la maglia di Alessandro Del Piero. Quel giorno nessuno di noi due poteva sapere che quel pezzo di plastica da 10.000 lire (quella della foto in alto, tanto per intenderci. Di fianco a quella del Sidney, comprata 18 anni dopo) mi avrebbe cambiato la vita. Perché se oggi amo questo gioco, il merito è di Del Piero. No, forse non rendo l’idea. Amo Del Piero molto più della Juventus e del calcio stesso.
Da quell’uggioso pomeriggio ho seguito appassionatamente le vicende bianconere, ma se Del Piero non segnava o non giocava bene, era sempre una gioia parziale. I primi ricordi (per la verità abbastanza sfocati), risalivano alla finale di Champions League del 1997: Juve contro Borussia Dortmund. “Tranquillo, vinciamo facile” mi rassicurava mio babbo, seduto sul divano accanto a me. Invece successe l’imponderabile: doppietta di Riedle e 2-0 per i tedeschi all’intervallo. Alle 21.30 dovevo andare a letto, ordine inderogabile della mamma. Il giorno dopo c’era scuola. Ma chi prendeva sonno? Mi giravo e rigiravo in continuazione, ansioso di sapere come sarebbe finita. Dopo una ventina di minuti, irruppe mio babbo nella mia camera: “Del Piero di tacco, Del Piero di tacco!”. Lo sapevo, come tutti i supereroi, Del Piero entrò e segnò. Col tacco. “Adesso rimontiamo” pensai dentro di me. Ma il calcio non è un fumetto: il Borussia ne fece un altro e si portò a casa la coppa. Meglio avere imparato l’amara lezione a 7 anni.
La stagione 1997/98 fu uno spettacolo: Alex segnava a ripetizione e ogni domenica pomeriggio non vedevo l’ora di incollarmi davanti alla tv per godermi le sue prodezze su “90° minuto”. Un interno destro che canta, una corsa palla al piede incontenibile. “Come si fa a fermarlo?”. Solo il destino ci poteva mettere lo zampino. Che infatti, puntuale, presentò il conto l’8 novembre del 1998: lesione dei legamenti crociati anteriore e posteriore contro l’Udinese. Ero a casa di un amico di mio babbo quando guardai quelle immagini drammatiche, ma lì per lì non realizzai la gravità della situazione. Credevo si trattasse di un infortunio da niente, ma non era così. E il fatto che la Juve, orfana di Del Piero, non vincesse più mezza partita, lo elevò nella mia fervida immaginazione di fanciullo ad Oliver Hutton della situazione.
Così, quando il 4 agosto del 1999 lo rividi nuovamente in campo, fu una vera e propria liberazione: ingresso al 53’ contro il Rostov in Intertoto e 23 minuti più tardi il gol. “L’incubo è finito, è tornato”. Purtroppo era soltanto l’inizio di un logorante calvario. Lento, impacciato, incapace di saltare all’uomo e segnare su azione. Andare al bar e sentire i vecchietti insultarlo rappresentava una sofferenza a cui mi sottoponevo sempre meno volentieri. “Dove sei finito Del Piero?” mi chiedevo disperato.
No, non è stato il gol di testa al Parma alla penultima giornata di quel campionato a farlo rinascere. Il Del Piero 2.0 è sbocciato il 18 febbraio 2001, al San Nicola di Bari, a pochi giorni di distanza dalla scomparsa del padre. Gli occhi erano per mio papà che giocava a calcetto con gli amici, le orecchie per “Tutto il calcio minuto per minuto”. “Prodezza di Del Piero, Juventus in vantaggio” esclama il radiocronista. “Saranno le solite iperboli da giornalista” dissi lì per lì. Invece no: doppio passo e pallonetto a scavalcare il portiere.
La Juve quell’anno arrivò seconda, ma il dispiacere era relativo. Perché sapevo che con Del Piero le vittorie sarebbero piovute nel giro di pochi mesi. Piuttosto ci rimasi malissimo quando scoprii che Ancelotti non era stato riconfermato. Proprio lui, che aveva avuto la pazienza e il coraggio di aspettarlo. Ma quel pomeriggio imparai che nel calcio a parlare sono i risultati. Sempre e solo i risultati.
In panchina tornò Lippi, il quale poteva godersi un Del Piero rigenerato. A maggior ragione se segnava persino su punizione, l’antica specialità della casa: prima col Venezia, poi altre due volte in Coppa Campioni, contro Porto e Celtic. “È questo il mio Del Piero!”. Scudetto nel 2002, scudetto nel 2003. E Alex sempre protagonista. Come quella gemma incastonata contro il Piacenza, due giorni dopo la morte dell’avvocato Agnelli. Cross di Zambrotta dalla sinistra, deviazione di suola e vana opposizione di Orlandoni, a toccare la palla prima che s’insaccasse. Di suola! Un colpo difficile soltanto da immaginare, figuriamoci da mettere in pratica.
“Del Piero all’andata è stato l’ombra di sé stesso, vediamo se stasera combina qualcosa” sentenziò mio padre prima della semifinale di Champions League contro il Real Madrid. Io me ne restai zitto. A costo di mordermi la lingua. Perché sapevo che sarebbe stata la partita del mio campione. Come andò finire, chi quel giorno era davanti al televisore, non se lo potrà mai scordare: una prestazione spaventosa dei bianconeri e di Alex in particolare. Trezeguet, Del Piero, Nedved: 3-1! L’apoteosi sul secondo gol: lancio di Zambrotta, stop telecomandato del capitano, finta a mettere a sedere Hierro, rasoiata sul primo palo e Casillas beffato. Del Piero esultò tuffandosi in scivolata, io scesi dal divano e feci lo stesso. “Il fenomeno vero è Alessandro Del Piero” recitava uno striscione sulle tribune del “Delle Alpi”. Libidine allo stato puro.
Quel momento sembrava il preludio alla gloria e invece lo fu per una delle sue peggiori stagioni di sempre. La Juve giocava male e Del Piero peggio, eppure non mi perdevo neanche una sua partita. Perché ogni domenica in cui andavo al bar, ero convinto che quella sarebbe stato il match della rinascita. Che bello essere adolescenti. Che bello vivere in un mondo di illusioni e di certezze incrollabili, a discutere su chi fosse il più forte tra lui e Totti, malgrado poi in quel campionato il 10 romanista gli fece le scarpe. Persino io ne ero a conoscenza, ma piuttosto che ammetterlo, negavo l’evidenza.
Assurde discussioni senza capo né coda coi miei compagni di scuola che duravano ancora ore e ore, portate avanti all’infinito pur di difendere il mio paladino. “Totti è più forte, guarda come sta giocando”, “E guarda quanto ha vinto Del Piero”, “Sì però il 10 in nazionale che l’ha il pupone”, “Ma Del Piero mica sputa agli avversari”. Le mie sofferenze con Capello in panca non facevano però che acuirsi: perché nel frattempo era arrivato pure Ibrahimovic e Del Piero veniva trattato come una riserva qualunque. Eppure quando giocava, spesso e volentieri dimostrava di essere ancora un signor giocatore. Ma niente, l’allenatore lo faceva entrare ed uscire dal campo con una frequenza quasi sadica.
Il campionato 2004-’05 si era presto trasformato in un testa a testa col Milan. Che si risolse l’8 maggio del 2005. Avrei dovuto studiare, visto che il giorno dopo mi aspettava il compito di matematica e rischiavo seriamente di beccarmi un 5 in pagella. Ma non me ne poteva fregare di meno. C’era Del Piero titolare al posto di Ibra, squalificato. Non me lo sarei perso per nulla al mondo. In quasi 10 anni di calcio, giocato e vissuto, mai avevo ammirato quello che successe al 27’. Del Piero puntò l’area e crossò, palla ribattuta da Gattuso. “Porca miseria, perché non hai tirato subito?” sbuffò un anziano signore seduto di fianco a me. L’azione, ci fosse stato qualsiasi altro giocatore, sarebbe finita lì. Ma poi venimmo risucchiati tutti quanti in un varco spazio-temporale che ci catapultò nella fantascienza. “Del Piero per Trezeguet… David, Tre-ze-guet! 1-0, ma che cross di Del Piero!” l’urlo di Fabio Caressa nel momento in cui il capitano raccolse la respinta di Ringhio, rovesciando per la testa di Trezeguet. Sì, cross in rovesciata, avete capito bene. Capitava saltuariamente di ammirare gol segnati in quel modo, ma assist così mai. Mi alzai in piedi sulla sedia ad applaudire, malgrado ancora oggi fatichi a realizzare quanto successe in quella giornata.
Altrettanto dura fu rendersi conto in che cosa si fosse trasformata l’estate successiva, all’insorgere di calciopoli. Al di là di tutto però, ero convinto che il capitano, al contrario di Capello, non avrebbe mai abbandonato la barca che stava affondando. Neanche in serie B. No, non è questione di convenienza o mancanza di alternative, come sussurrarono al tempo i maligni. È questione di lealtà, riconoscenza e attaccamento alla maglia.
Il beffardo destino volle che la Juve ripartisse a settembre in casa del Rimini, la mia squadra del cuore. Per una società che fino al 2006 poteva vantare 6 tornei in cadetteria come punto più alto, un evento senza precedenti. Per il sottoscritto una sorta di umiliazione ed euforia al tempo stesso. Insomma un assurdo conflitto interiore in piena regola. I miei biancorossi affrontare il mio beniamino, fresco campione del mondo – a proposito, sul 2-0 alla Germania in semifinale di “Achille”, come si autosoprannominò Del Piero durante i mondiali tedeschi, per poco non scoppiai in lacrime, mentre correvo per casa senza alcuna cognizione logica - sogno o son desto? Non me la sentii di andare al “Romeo Neri” quel giorno. Meglio soffrire aggrappato alla radio: troppi sentimenti contrastanti.
Anche a fine gara: da una parte la soddisfazione per il pareggio strappato dal Rimini, dall’altro quel senso di sconforto sgorgato dalla prestazione incolore di Pinturicchio, pizzicato oltretutto dalle telecamere a battibeccare con Di Giulio. Il bello però di quella stagione fu che i bianconeri si trasformarono in una giostra gioiosa che illuminava il torneo grazie ai suoi campioni, capeggiata da un Del Piero versione capocannoniere. Il brutto che pure io scendevo in campo il sabato pomeriggio, per cui la maggior parte delle partite me le persi.
Stesso straordinario film per il mio numero 10 l’anno seguente: anche in serie A timbrava con una frequenza ugualmente spaventosa. Alla vigilia dell’ultima giornata, lui e Trezeguet erano appaiati in testa alla classifica marcatori a quota 19 reti. La Juve giocava a Genova in casa della Samp, io invece ero in gita con la scuola a Praga. Non avendo più soldi nel telefono, dovetti fremere fino al giorno successivo, quando mi fiondai in edicola per leggere che il capitano ce l’aveva fatta: doppietta e di nuovo capocannoniere. Per il secondo campionato di fila.
La Champions League seguente si tramutò in un surreale viaggio nel tempo. Del Piero aveva 34 anni, non aveva più la gamba dei tempi migliori, ma la classe restava sempre cristallina. Continuava a dipingere pezzi d’arte, mandandomi ad ogni gara in brodo di giuggiole. Destro a giro sotto l’incrocio nei preliminari contro l’Artmedia – il più classico dei gol “alla Del Piero” - punizione da oltre 35 metri a stappare lo 0-0 con lo Zenit San Pietroburgo. E capriola a festeggiare il gol vittoria. “È un 34enne od un ragazzino?”.
Poi arrivò il Real Madrid: il 2-1 dell’andata (Del Piero ed Amauri i marcatori) non me lo potei gustare causa allenamento, il ritorno no. Sofferenza immane, squarciata da due lampi del capitano. Sinistro in corsa e punizione sul palo di Casillas. Poi, la standing ovation del Bernabeu. Corsi subito ad impugnare il telefono e mandare un messaggio a mio babbo, in quella settimana all’estero per lavoro. Anche se ancora stento a capire il senso dei complimenti del mio professore di matematica la mattinata successiva, che si congratulò con me per la sua doppietta. Neanche le avessi fatte io quelle due reti.
Bazzecole, dinanzi al biennio orribilis marchiato Ferrara, Zaccheroni e Del Neri. I bianconeri, senza mezzi termini, facevano schifo, nonostante il solito faro luminoso. Che correva da solo nella galleria dei record. 300 gol da professionista, marcatore più prolifico in serie A con la Juventus. E via, via, tanti altri. A questo punto potreste pensare che, se uno nutre un amore così viscerale nei confronti di Alessandro Del Piero, il giorno in cui Andrea Agnelli ne annunciò l'addio alla fine della stagione 2011-’12, si mise a lutto o andò a Torino a protestare. Niente di tutto ciò. Perché 3 anni fa la mia preoccupazione era non tanto perdere per sempre il mio campione, bensì quella di non dovermi deprimere dinanzi ad un atleta piegato dal peso dell’età, che arrancasse sul rettangolo verde specchiandosi nella sua gloria riflessa. E pronunciare la fatidica frase: “Ma perché non smetti?”.
Avevo 21 anni ed avevo fatto mia, vuoi perché nel frattempo avevo iniziato a collaborare con un giornale, vuoi perché l’innocenza dell’adolescenza si era bruciata assieme ai capelli, uno spirito critico ed un’obiettività, che a volte quasi mi rattrista. “Del Piero nel febbraio del 2011 ha pubblicato un videomessaggio in cui si diceva disposto a firmare in bianco pur di restare a Torino. Una dichiarazione d’amore con cui ha messo con le spalle al muro Agnelli, il quale il 18 ottobre 2011 per ripicca ha rivelato via stampa che avrebbe chiuso il suo ciclo in bianconero a maggio”.
La questione mi pareva di una logica ineccepibile, tant’è che mi trovavo in disaccordo con chi auspicava un clamoroso prolungamento a sorpresa. Meglio rimpiangere qualcuno che maledirlo. In realtà, non avevo ben messo a fuoco cosa significasse distaccarmi dalla mia bandiera. Distaccarmi definitivamente.
Nel mentre Alex giocava col contagocce, tuttavia quando entrava in campo non passava certo inosservato: eliminate Roma e Milan in Coppa Italia grazie alle sue marcature, in campionato impallinate Inter, Lazio e Atalanta all’ultima giornata a scudetto già conquistato.
Ecco, quello che accadde quel 13 maggio del 2012 rasentava il non senso. Apparentemente la solita domenica di calcio: 1-0 di Marrone, raddoppio del capitano. “Evvai ce l’ho al fantacalcio!” gioii, anche se in maniera piuttosto contenuta, pensando si trattasse di una giornata e di una partita come tante altre. A fine primo tempo però, passarono in rassegna in tv i gol più belli della sua carriera. “No, non è possibile che oggi finisca tutto ciò”. All’improvviso un tourbillon di emozioni ribollì dentro di me. Spensi la televisione ed indossai un giacchetto alla bell’è meglio e, pur di non sorbirmi la scena del suo passo d’addio, mi diressi ad un campetto vicino a casa mia, per vedere un match di Promozione. Non ero emotivamente pronto per separarmi da lui. Solo qualche mese più tardi ebbi il coraggio di andare su youtube e, con uno sforzo indescrivibile, cliccare play sul video relativo alla sua uscita dallo “Juventus Stadium”.
Un tifoso “normale” nell'estate del 2012 avrebbe girato pagina, magari con qualche dolore ma senza pensarci troppo. Eppure a me di Vidal, Chiellini, Marotta, Agnelli e compagnia interessava sempre meno. A me importava soltanto di scoprire dove avrebbe proseguito la sua carriera il capitano. Nei week end, la mia preoccupazione primaria era diventata puntare la sveglia, mettermi comodo sul divano – talvolta senza nemmeno passare dal letto! - ed ammirare il maestro insegnare calcio in Australia. Ieri come oggi, atterrato in India a dare lustro alla neonata Indian Super League. Perché, rivisitando una frase di Giampiero Boniperti, “Alex non è importante, è l’unica cosa che conta”. Auguri Capitano.
Ti potrebbe interessare
Dallo stesso autore
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.