Xavi Hernandez, l'architetto del calcio
Xavi Hernandez passerà alla storia come l’architetto della Spagna che conquistò ogni trofeo nel giro di pochi anni. Nella sua testa c’erano i piani del successo che utilizzò per alzare due Europei e un Mondiale. Il segreto di una forma di gioco ammirata e invidiata da tutto il mondo. “Lei non è giapponese, lei capisce quello che le dico” gli disse un giorno Luis Aragonés, che aveva un piano e sapeva soprattutto come metterlo in pratica.
Un'immagine, o meglio un palmares, che vale più di mille parole.
È risaputo che un’immagine vale più di mille parole. Ci troviamo davanti a noi ad un cattedratico del calcio, che ha deciso a giugno di lasciare il club dove ha giocato durante tutta la sua vita e se n’è andato con l’abbraccio di tutti i suoi compagni, come se di un amico si trattasse, con la Champions League e il pallone in suo potere nella finale di Berlino.
Non credo ci sia definizione migliore per fotografarlo: un uomo che si è sempre fatto voler bene dal mondo del calcio, che ha vinto un’infinità di titoli e che ha dominato quel pallone rotondo come pochi hanno saputo fare. Con un fisico gracile ha dimostrato che si può essere un'icona di questo sport a livello mondiale semplicemente usando il cervello. Lui leggeva l’azione, guardava i suoi compagni, sapeva, prima di tutti, dove ognuno di loro sarebbe stato in quel preciso momento.
Xavi Hernandez - campione del mondo Under 20 nel '99 e argento ai Giochi olimpici di Sidney 2000 - esplose nel 2008 a 8 anni dal suo debutto in nazionale. Confermando tutte le attese. Miglior giocatore dell’Europeo 2008 all'unanimità, nonché profeta del tiqui taca: Attorno a lui fiorì la miglior generazione di calciatori spagnoli.
In quel torneo, rotta la maledizione dei quarti ai rigori contro l’Italia, la nazionale iberica iniziò a volare, libera da preconcetti contro la Russia in una delle sue migliori partite di sempre (3-0).
Una squadra più forte dell'infortunio di David Villa, il cannoniere della manifestazione. Nota bene: trattasi al tempo di un tiqui taqa allo stato embrionale, se si considera che il classe '80 si permette di effettuare un paio di lanci, inusuali nel proseguo di carriera.
Fu lui ad aprire il cammino del trionfo dopo un passaggio di Andrés Iniesta, suo socio nel Barça e nella "Roja". Nella finale con la Germania fu Xavi Hernandez che mise il pallone per Torres affinché potesse bruciare sul tempo Lahm e Lehmann. Campioni d’Europa, 34 anni dopo.
La storia non finisce qui. Nel 2010, in Sudafrica, le furie rosse si sarebbero laureate campioni del mondo con Vicente Del Bosque per la prima volta nella loro storia. Forse mostrarono al mondo un gioco meno brillante rispetto al 2008, ma avevano una sicurezza e un’efficacia demolitrice. Non si spiegherebbe sennò la seconda vittoria in due anni contro la corazzata tedesca in semifinale, con un gol di testa di Puyol da un corner gestito magistralmente dalla sinistra da Xavi.
Il ciclo trionfale con la nazionale si chiuse col secondo titolo continentale del 2012, quello della sublimazione del tiqui taqa, con un centrocampista, Fabregas, spesso preferito ad un attaccante puro come Torres, nelle vesti di falso nueve. Il classe '80 ci arrivò dopo un’annata difficile, ma riuscì comunque ad imporre il suo gioco in una lezione maestra nella finale contro un’Italia spompa. A seguire, il fisiologico declino sia nel club che in nazionale, con la goleada contro l’Olanda in Brasile nel 2014 e la prematura eliminazione ai gironi mondiali; un’ingiusta sconfitta per una carriera gloriosa. Almeno quanto la panchina col Cile nell'ultima sua partita con la maglia della Spagna. Perché con Xavi se ne va il miglior giocatore della storia del calcio spagnolo.
Xavi Hernandez è stato un bignami di cultura calcistica, esploso dentro il campo e, molto probabilmente, queste conoscenze saranno anche aumentate fuori dallo stesso campo.
Una scienza così ampia e approfondita che gli ha permesso pure di recitare nella serie "How I met your mother" nel ruolo di Ted Mosby. Guarda a caso, professione architetto...(uno dei due è Xavi Hernandez)
All’inizio della sua carriera nel Barcellona, con Louis Van Gaal come allenatore, Xavi prese conoscenza di un ruolo che forse non era il più adatto. Gli misero addosso la pressione di essere l’erede naturale di Pep Guardiola nella celebre posizione del 4 nel sistema numerico creato da Johan Cruijff. Giocando davanti alla retroguardia, le responsabilità difensive lo presero di sorpresa e non poteva essere realmente protagonista negli ultimi metri del campo.
Sarà poi Frank Rijkaard che, con il suo arrivo in Catalogna, avanzò la posizione di Xavi Hernandez per farlo giocare come interior de posesion (mezzala di possesso, tanto per intenderci), riuscendo così ad esaltare il suo talento principe, il palleggio. Con questa evoluzione, abbinata alla fiducia che gli diede Luis Aragonès nell’Europeo del 2008, divenne un pezzo fondamentale del puzzle spagnolo. Il motore del gioco sul quale erano imperniate il Barça e la Nazionale.
17 anni di calcio al Camp Nou e 25 titoli con la prima squadra del Barcellona.
L'architetto se n'è andato a 35 anni per iniziare un altro progetto che l'ha portato in estate in Qatar a difendere la maglietta bianca dell’Al Sadd. Abituato a guardare gli altri sul campo, questa scelta l’ha decisa guardando dentro sé stesso e parlando con la sua famiglia.
Perché il Barcellona gli aveva offerto comunque di continuare fino al 2018, ma in quel momento, credo, si voleva dare lui stesso un autopassaggio o perché no, segnare lui stesso un gol, pensando al suo prossimo traguardo. Quello di allenatore o direttore sportivo della squadra di tutta la sua vita (Luis Enrique permettendo, of course). In questa nuova avventura da "aspirante allenatore-diesse" non appenderà gli scarpini al chiodo, ma continuerà con loro perché “si continua a divertire” come egli stesso ha ammesso, per fortuna dei qatarioti.
“Me lo chiede la testa e il corpo. Non tanto il cuore, ma sento che è arrivato il momento di andarmene. Non ho potuto avere una carriera migliore. Se cominciasse adesso non credo uscirebbe così bene. Non mi lascio niente qua. Ho una felicità completa. Mi piacerebbe essere ricordato come una persona che lo ha dato tutto”. 85 gol in 764 partite con la prima squadra e, soprattutto, una lista infinita di passaggi lo nominano come uno dei più grandi geni del centrocampo che ha mai avuto il Barcellona. E la Nazionale. Con 133 presenze è il giocatore di che più volte ha vestito la casacca della Roja.
Nella sua bacheca pure tre "Palloni di Bronzo". E forse quello del 2010, dopo il mondiale sudafricano, poteva essere di un colore dorato. Forse la Fifa e France Football finiranno col darglielo a titolo onorifico come fecero con Diego Armando Maradona, che non lo vinse mai perché al tempo potevano partecipare soltanto giocatori europei. I passaggi del resto non sono mai stati così mediatici come i gol.
Però questo assist qui di Xavi Hernandez...
https://youtu.be/lsiwNjITUz0
Credo che il calcio appartenga ai buoni centrocampisti, le squadre si costruiscono attorno a loro in quanto dominano le tre basi del calcio con intelligenza: essere un punto di appoggio per chi ha il pallone, pensare e scegliere bene prima di riceverlo e infine compiere la miglior scelta possibile. E in questo l'ormai ex Barca è stato un autentico fuoriclasse. Non ha avuto bisogno di essere rapido né robusto, gli è "bastato" il suo cervello.
Fu proprio grazie alla sua intelligenza che si convertì nel cerebro del Pep Team, una delle migliori squadre della storia del calcio. Durante il quadriennio 2008-2012 riuscì a raggiungere il suo apice calcistico, essendo lui stesso incaricato di scandire i tempi della partita, assistendo gli attaccanti, stancando il rivale, arrivando dalla seconda linea all’area, dando sempre una soluzione attorno alla sfera e migliorando i suoi compagni. È stato un maestro del famoso gioco di posizione creato da Cruijff, gli è stato affidato il libro della prima edizione e lo ha scritto magnificamente.
Dopo l’addio di Guardiola e il raggiungimento del mondiale con la Roja e un europeo in più, sembrava che la fine dell’era Xavi fosse arrivata. Nel Barça decise di seguire gli ordini di Tito Villanova, con il quale conquistò nel 2013 la Liga dei 100 punti e in nazionale accettò la sfida di Vicente del Bosque di giocare il mondiale in Brasile. Purtroppo la morte di Tito portò un alone di tristezza nel Barça, dove il Tata Martino non riuscì ad imporsi e, successivamente, la Spagna affondò a Rio de Janeiro.
Cosicché, tutto faceva intendere che Xavi fosse sul punto di ritirarsi la scorsa estate. Ma a Barcellona arrivò un amico, Luis Enrique, e lo convinse a continuare un anno in più con la maglietta blaugrana ed accettare un ruolo secondario. In modo da portare la sua saggezza e la sua esperienza dentro lo spogliatoio e il suo talento quando era necessario nel campo.
L’inizio di stagione fu complicato. Lucho doveva riuscire a trasportare l'asset della squadra dal centrocampo all’attacco, motivando e offrendo il ruolo di attore principale a Messi, e adattando i nuovi - compreso l'erede del numero 6 Rakitic - allo “stile Barça”. Quando ci riuscì, la formazione azulgrana volò e vinse tutte le competizioni che poteva vincere, dando il miglior arrivederci a un grande come Xavi Hernandez, che durante lo scorso anno ha partecipato ai momenti chiave, è stato un leader e ha continuato a formarsi nella sua idea di tornare, un giorno, come allenatore.
Non male salutare l'Europa con un'altra Champions. La terza...
Perché questo non è un addio, ma un arrivederci. È un appassionato e un saggio del calcio. Quindi, nessuno deve dubitare che tornerà come allenatore, con il libro del suo stile sotto braccio, per continuare la sua opera e regalare grandi storie calcistiche ai nostri occhi. Ovunque tu vada, che sia un posto caldo e lontano come Qatar, portati con te quella corda immaginaria con la quale legavi a te il pallone al tuo piede destro e togliertelo era quasi impossibile.
Arrivederci maestro, è stato un piacere.
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