29 Aprile 2015
3 minuti

Ride bene chi ride Porto: il player trading spiegato dai portoghesi.


L'eliminazione pesante col Bayern di Monaco nei quarti di Champions League ha frenato l'entusiasmo dei lusitani, che sono stati derisi per i 6 gol presi in Baviera dopo il 3-1 dell'andata. Eppure tutti gli anni il Porto va nell'Europa che conta, vendendo i propri assi a cifre folli e confermandosi costantemente ai piani alti del calcio europeo. Un lusso che squadre più blasonate non possono vantare.


Ricardo Carvalho: arrivato dalle giovanili, venduto al Chelsea per 30 milioni. Anderson: preso a 5, venduto al Manchester United per 32. Pepe: preso a 2, venduto a 30. Lisandro Lopez: da 2 a 24. Bruno Alves: da 0 a 22. Falcao: da 5 a 47. Hulk: da 5 a 56 milioni. E poi Guarin, James Rodriguez e Joao Moutinho. Sono passati tutti di lì e tutti hanno lasciato oro nella stessa cassa: quella dei draoges, forse la squadra in Europa che sa vendere meglio i propri talenti.

Talenti in vendita in una vetrina europea. Sempre. Perché, volendo esagerare, si potrebbe dire che a giocare le coppe europee ci vanno il Porto e qualche altra decina di squadre del continente. Il club di Oporto festeggia nel 2015 i 30 anni di presenza consecutiva in Europa, tra Coppa delle Coppe, UEFA, Coppa dei Campioni, Champions ed Europea League: né Juventus né Milan possono dire lo stesso.

Certo, il campionato portoghese è un'altra cosa: un gioco a tre con Benfica e Sporting, con il Braga che di recente fa capolino tra le prime. Fatto sta che i biancazzurri hanno trovato la propria dimensione: essere sempre visibile, essere sempre desiderabile, piazzare il proprio prodotto al momento giusto.
Sono pochi i team che hanno avuto il coraggio di vendere i gioielli una volta arrivati al top: Pinto da Costa, presidente dei lusitani, ha ceduto 5 degli 11 titolari che nel 2004 hanno vinto la finale di Champions guidati da José Mourinho.

Josè Mourinho e il suo Porto campione d'Europa nel 2004.

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L'ultimo caso eclatante è quello di Danilo, difensore brasiliano che dalla prossima stagione passerà al Real Madrid: per il Porto vale una plusvalenza da quasi 20 milioni di euro.

Il player trading del Porto ha però un limite. Per far sì che i giocatori abbiano il boom mentre giocano in Portogallo, spesso il club ingaggia talenti da lontano: il Sudamerica è terra di conquista che ha portato alla ribalta gran parte dei ragazzi esplosi a Oporto. In America latina però vigono regolamenti diversi da quelli europei, con la presenza di ingenti fondi d'investimento legati a procuratori e consulenti. Morale: il cartellino delle nuove promesse arriva in Portogallo ancora legato ai fondi sudamericani, che spesso hanno diritto alla revenue share di fronte alla vendita successiva.

Di fatto, il Porto non può quasi mai fregiarsi del 100% della plusvalenza che ottiene dal player-trading: anche per questo, in un circolo vizioso, si trova sempre nella situazione di cedere le proprie stelle, e in alcuni casi a rischiare grosso dal punto di vista economico, com'è successo con il rosso di bilancio nel 2014. Volendo fare un forzatissimo paragone con il calcio italiano quindi, il caso del Porto non è simile all'Udinese (bilanci sostenibili e scout di grande livello), ma più al Palermo del vulcanico Zamparini: contratti con terze parti oltre le squadre di club e vendite d'eccellenza. Con i bilanci che non sempre cantano vittoria.

Allo stesso tempo, è sicuramente vero che il Porto è una squadra che crea valore: che trasforma cioè buoni giocatori in possibili campioni, che candita allenatori a panchine prestigiosissime (per ultimo Julen Lopetegui) e che lancia i protagonisti del calcio che verrà.

Chi ha acquistato dal Porto è rimasto raramente deluso, ma ha spesso lasciato in Portogallo dei bonifici bancari di tutto rispetto.

"Io sono  d'accordo con Laporta - dice Pinto da Costa - l'ex presidente del Barcelona disse che il Porto non è caro, ma vende bene i propri talenti".


 

 

 

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